Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Questo racconto lo dedico a mio padre. Classe 1915 come amava dire lui. Che se n’è andato da questo mondo in un tiepido giorno d’autunno del 1981. E, a mia madre per la sua voglia di raccontare
La scatola dei ricordi
Lo scatolone cade e una nuvola di polvere riempie la stanza. La luce della finestra illumina migliaia di pagliuzze dorate. Nell’angolo, tra il muro e una tavola di legno vedo una scatola più piccola che il tempo ha ingiallito, è legata con un nastro dello stesso colore. Forse è di mia madre, da anni è andata a vivere nella casa dei suoi genitori a Camaiore. Io unica custode della casa rosa. Tiro un lembo del nastro per sfare il fiocco e come uno scrigno prezioso lo apro lentamente. È piena di fotografie ingiallite come la scatola. Prendo la prima. Dei giovani sorridono dalla corsia di un ospedale, quello al centro deve essere mio padre. C’è una data: Rimini 10 gennaio 1943.
Ne prendo un’altra, è ruvida sotto le mie dita. In posa, in divisa grigio verde, baffi e capelli neri mio nonno Alfonso. Quando io l’ho conosciuto sui suoi capelli era scesa la brina.
Un’altra ancora. Una ragazza, due trecce raccolgono i lunghi capelli, indossa un vestito a fiori con il collo di picchè chiuso da piccoli bottoni in madreperla. Lo sguardo verso l’obiettivo: mia nonna Aristea.
Nella quarta una donna senza sorriso mi fissa, ha i capelli raccolti ed è appoggiata alla zappa come a un bastone. Mia nonna Gemma.
Una bicicletta. Agganciato alla bicicletta un carretto e sul carretto una scultura in legno. In sella alla bicicletta mio nonno Giacomo. Un fotografo immortala la scena.
Mia mamma con mio fratello a Lucca, appena fuori da porta S. Maria. Mio fratello imprigionato in un paio di pantaloni lunghi, una camicia e un gilet. Al collo un piccolo fiocco di stoffa è tenuto da un elastico che si nasconde sotto il collo ripiegato della camicia. Il suo disagio traspare dalla foto. Mia mamma invece sembra a suo agio. Indossa una gonna bianca plissettata che le mette in risalto le gambe affusolate. La camicetta dello stesso colore della gonna è bordata di nero al collo e al giro manica. Ai suoi piedi dei sandali neri, una sottile striscia di pelle ferma le dita e un cinturino gira intorno al tallone. Anche la borsa è nera come gli occhiali che tiene in mano. Alle orecchie due minuscole perle, al polso un piccolo orologio dorato con un cinturino in pelle nero. I capelli leggermente mossi. Mia mamma in quella foto assomiglia a Jacqueline Kennedy.
Sotto alle foto c’è una busta bianca piccola. Ci sono quattro diapositive, dovrebbero stare con le altre nel caricatore. Belle le diapositive da vedere ma com’era complicato farlo. Il proiettore all’altezza giusta, la scelta della parete dove proiettarle. All’inizio staccavamo quadri e foto. Poi comprammo il telo.
Guardo la prima. Eravamo giovani e belli come gli eroi di Francesco Guccini disposti in semicerchio intorno al fuoco acceso. Ci siamo tutti, anche mio fratello senza gilè. Una delle nostre uscite per cercare la congiunzione tra l’Abisso Claude Fighierà e l’Antro del Corchia. Io per dire la verità in grotta andavo poco, li aspettavo fuori intorno al fuoco ad arrostire salsicce, bere vino e intonare Geordie. Immaginavo Fabrizio De André mentre attraversava il London Bridge.
Prendo le foto una ad una e cerco di dargli una sequenza storica, le allineo davanti a me fino a svuotare la scatola. Le metto di nuovo dentro e vado da mia madre.
In corridoio ci sono le sue ciabatte, in camera la trousse aperta sul canterale mostra la scatola della cipria e il rossetto. Guardo l’orologio, è l’ora della messa. Mi siedo sul divano.
“È tanto che aspetti?” mi dice entrando dalla porta
“No! Guarda un po’ cosa ho trovato in soffitta”
“Dov’era finita? Sai quanto l’ho cercata”
Apro la scatola e insieme guardiamo le foto. Ogni foto una storia. Prendo qualche appunto. Si è fatto tardi. Lascio la scatola, mia madre e torno a casa. Mi dimentico delle foto e delle storie.
Passano molti inverni e altrettante primavere. Poi un giorno.
Fuori fa freddo. Apro la porta di casa, l’aria è tiepida le luci dell’albero di Natale illuminano la stanza. È una delle tante domeniche che passo con mia madre. Ora la messa la guarda in televisione, usa poco la cipria e il rossetto. Sul tavolo di cucina c’è la scatola ingiallita chiusa con il nastro.
“Che dici hai voglia di sentire di nuovo quelle storie?”
La nascita di mio padre
Tutto era cominciato sessantasei anni prima a Focchia di sotto. Focchia di sopra e Focchia di sotto sono i paesi i più a nord del Comune di Pescaglia in provincia di Lucca. Doveva essere il giorno più bello per Aristea, la nascita del suo primogenito. Non fu così. Mentre lei aveva le doglie, Alfonso suo marito difendeva la Patria sull’altopiano pietroso tra Gorizia e Monfalcone insieme ai ragazzi del ‘99. A guardare quei monti da dietro un mirino.
Alfonso non lo sapeva ma tutto era cominciato l’anno prima, il 28 luglio del 1914 quando a Serajevo un Serbo Bosniaco uccide l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie. Questo fatto accende la miccia che fa esplodere la Grande Guerra. Alfonso non sa dov’è Sarajevo e non conosce Francesco Ferdinando e la moglie ma all’arrivo della cartolina deve partire.
È una guerra dura. In trincea a difendere un confine immaginario tra le montagne coperte di ghiaccio e neve. Notti passate a scavare nel fango, dove i calzari vengono risucchiati da bocche invisibili e ordini impartiti in Italiano una lingua per molti sconosciuta in quella babilonia di dialetti. Lui si rende conto della gravità della situazione ma non ne fa parola nelle lunghe lettere che invia a Aristea. Cominciano tutte cosi:”Cara Aristea, come state? Il bimbo, il bimbo che fa? Cresce? I mi’ genitori, quant’è che un lì vedete. La selva?” Chiede della famiglia e dei suoi amati boschi.
La vita di Aristea e del figlio andava avanti in paese con molte difficoltà. Lei si prendeva cura degli animali: la capra e le galline, coltivava l’orto e insieme al padre procurava la legna per il fuoco.
Mi sembra di vederla intenta a preparare la cena e magari a pensare alla prima volta che aveva visto Alfonso. Era una mattina di primavera del 1901.
Incontro tra Aristea e Alfonso
Era la domenica delle Palme, festa grande in paese. Per assistere alla processione venivano dalle borgate vicine, era l´occasione per rincontrarsi o per conoscersi. Mia nonna racconta:
Ricordo ancora l’abito che indossavo: un vestitino a fiori che mi segnava la vita per poi ricadere fino a metà polpaccio, chiuso davanti da una fila di piccoli bottoni in madreperla, mia mamma aveva applicato un colletto in picchè bianco e aveva raccolto i miei lunghi capelli in due trecce. Dopo essermi guardata più volte al piccolo specchio del lavabo uscimmo di casa per raggiungere la chiesa. La piazza del paese era gremita, a quel tempo gli uomini e le donne entravano in chiesa da due porte diverse: le donne dalla grande porta centrale e gli uomini da una porta laterale, una volta entrati gli uomini si posizionavano sulle panche davanti e noi donne dietro. Quella mattina la funzione andava per le lunghe con canti e preghiere tanto da annoiarmi. Avevo notato sulla panca davanti alla mia un ragazzo, non ricordavo di averlo visto prima. Di lui vedevo la nuca e ogni tanto il profilo. Dovevo trovare il modo di farlo girare. Il caso lo fece per me. Un improvviso colpo d’aria fece sbattere la porta rimasta socchiusa e lui assieme ad altri si girò. Gli altri non li vidi, bastarono pochi secondi sentì le mie guance colorarsi di rosso i miei occhi si abbassarono per l’imbarazzo. Per due anni non perdemmo una messa. Quel giorno compivo tredici anni.
Per non rovinare l’unico paio di scarpe che aveva, Alfonso tutte le domeniche percorreva la mulattiera che portava in paese con gli zoccoli. Le scarpe le riponeva in una sacca di tela che portava a tracolla e solo vicino al paese faceva il cambio. Le sue origini erano umili ma voleva fare bella figura con quella ragazza dalle lunghe trecce. Mio nonno aveva quattordici anni.
Erano passati due mesi e i ragazzi non si erano mai parlati. I loro sguardi furono notati da Alceste, il padre di Aristea che un giorno al ritorno dalla messa affrontò la figlia.
“A me quel ragazzo lì un mi garba! È analfabeta e non ha lavoro come si deve, un ti fa veni’ strane idee”
Mia nonna Aristea era giovane ma con un carattere deciso non si preoccupò più di tanto. A lei quel ragazzo garbava.
Alceste aveva saputo dai paesani che sua figlia e quel ragazzo non solo si guardavano si erano anche parlati sulla piazza della Chiesa davanti a tutti. Pensò bene di affrontare il giovane per dissuaderlo.
“Devi sta’ lontano dalla mi’ figliola, non hai né arte né parte non ti voglio più vedere”
Così dicendo si avvicinò minaccioso al ragazzo alzando la mano destra. Alfonso non guardò la mano alzata ma gli occhi dell’uomo e rispose:
“Io la vostra figliola prima o poi la sposo!”
Alceste tornò a casa su tutte le furie. Come si permetteva quel ragazzo rozzo e arrogante di affrontarlo cosi! Per i due giovani divenne sempre più difficile vedersi. A mia nonna fu proibito di uscire di casa per partecipare alla Messa della domenica. Solo grazie all’intervento della mamma che Aristea riusciva a farlo di nascosto. (continua…)
Franca Giannecchini