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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
RICORDI DI VOLONTARIATO

30/9/2022 - 7:35



Calcutta, 21 gennaio 1998. Domani è il mio compleanno, un compleanno speciale perché lo festeggerò di nuovo qui, abbracciata dagli odori e dai colori della mia amata India. Non importa se sarò lontana dalla famiglia, dagli amici, io qui mi sento a casa.
Domani i volontari dell’Associazione Bhalobasa, che hanno condiviso con me la prima parte di questa avventura, torneranno a casa. Sentirò la loro mancanza, ma non nascondo che l’idea di rimanere sola a Calcutta per altri quindici giorni mi entusiasma e mi elettrizza. Prima però abbiamo ancora una visita da fare insieme, ovvero l’opera più importante (sicuramente quella a lei più cara) creata da Madre Teresa: il Shishu Bhavan, l’istituto dei bambini abbandonati, ed è lì che presterò servizio durante il mio breve periodo di volontariato. Ho scelto questo luogo perché non dovrò occuparmi di malati mentali o di moribondi, e non dovrò affrontare la sofferenza, l’ho scelto perché con i bambini è tutto più facile e divertente, la considero una piccola vacanza allietata dai sorrisi e dagli occhi scuri, profondi, di questi esseri misteriosi che mi rapiscono il cuore ad ogni loro sguardo.
 
Uscendo dalla pensione che si trova dal lato opposto dell’istituto, ci incamminiamo e arriviamo a destinazione, il portone si apre, la costruzione è grande, saliamo su per le scale che conducono ad un’ala dell’istituto. Io, che voglio respirare le pareti che mi accoglieranno per le due restanti settimane,  rimango un po’ indietro rispetto agli altri, e quando la porta della grande sala si apre, i miei compagni si voltano verso di me, aspettano che io salga gli ultimi scalini e con parole di incoraggiamento mi dicono che tutto andrà bene, che non dovrò preoccuparmi di nulla. Queste parole mi spaventano.
Un passo oltre la porta e vengo assalita da corpi di bambini deformi e malati, odo alcune persone lamentarsi, mugolii di piccole anime vegetali. Intorno a loro un movimento costante di donne indiane  che li accudiscono, di volontarie che li nutrono, li tengono sul grembo, li accarezzano, quindi è qui che dovrò stare? Non ho mai visto un disabile da vicino, ho paura perché non so gestire il mio dolore, come posso stare vicino a questi malati e sopportare la loro condizione? Cos’hanno fatto di male questi bambini per ritrovarsi in questo stato? Dov’era Dio nel momento della loro nascita?
 
Il mio pensiero va agli altri bambini, quelli con cui pensavo di poter lavorare, quelli belli, puliti, che ti sorridono e ti tendono le braccia, dove sono e perché non sarò con loro?
Vengo a sapere che da due anni i volontari non lavorano più in quel reparto, la relazione che si instaurava tra i bambini e gli adulti era molto forte e la separazione una totale angoscia da entrambe le parti, e allora, per coloro che vengono dati in adozione, c’è solo un’équipe di tate indiane che li curano fino a consegnarli alla loro nuova famiglia. Per noi, volontari che arriviamo da ogni parte del mondo, ci sono i dimenticati della Terra, con le loro malattie, la loro follia, la totale dipendenza dagli altri.
Non so se l’urlo nato dentro di me lo hanno sentito anche fuori, ma è così forte e lacerante che mi stordisce. La mia pancia si è aperta come la terra dopo una potente scossa di terremoto, sono invasa da una miriade di emozioni, la tristezza e la rabbia mi stanno consumando secondo dopo secondo, le lacrime stanno inondando i miei occhi, la gola si stringe sempre più, ho voglia di scappare, di fuggire lontano.
Una volontaria francese mi presta un libro sulla vita di Madre Teresa, dice che mi aiuterà.


 22 gennaio 1998. Il giorno del mio compleanno è arrivato di giovedì, giorno di riposo per i volontari. I miei compagni di viaggio sono partiti, io ho ancora un giorno per realizzare che sono a Calcutta da sola, e che non passerò due settimane con i bambini che avevo sognato.
La mia giornata e parte della serata l’ho passata leggendo il libro sulla vita di Madre Teresa. Se n’è andata da soli quattro mesi ma la sua presenza qui è molto forte. Alle cinque del mattino, con il buio fuori e l’aria della notte ancora fredda, io e altre volontarie ci incamminiamo verso la Casa Madre per assistere alla Messa, dove i canti delle Missionarie della Carità sembra che ti portino in un mondo più alto e conferiscono un’atmosfera gioiosa e allo stesso tempo tenera alla grande sala dove Lei riposa. Mi guardo intorno e c’è grande commozione, abbiamo tutti e tutte le lacrime agli occhi, dalla ragazza punk alla signora di settanta anni, qui non c’è chiusura, chiunque può venire a prestare servizio.
A cena Jackie, una volontaria australiana, tira fuori una scatola di dolcetti indiani, esageratamente dolci, per festeggiarmi, mi commuovo e scopro di aver trovato un’altra famiglia, non sono sola ad affrontare il lavoro che mi aspetta e questo mi alleggerisce un po’ il cuore.
La notte arriva e mi ritrovo nella camerata, tanti letti e altrettante zanzariere a proteggerci da eventuali insetti, mi impongo di terminare il libro prima di affrontare la mia nuova esperienza.
 
23 gennaio 1998. E’ venerdì, il grande giorno, quello del mio incontro con la disabilità, e ho voglia di correre in aeroporto.
Di nuovo usciamo col buio, di nuovo i volontari si ritrovano nella grande sala che ospita la tomba di Madre Teresa e una statua che la raffigura seduta, con le gambe incrociate lateralmente, com’era solita stare. Qui arrivano pellegrini e volontari, ricchi e poveri, gente di tutte le religioni, chi piange, chi medita profondamente, chi viene a chiedere una grazia, chi canta, e chi, semplicemente, se ne sta in silenzio, assorto come in una bolla di sapone. Dopo la cerimonia le Missionarie offrono a tutti, ma soprattutto a chi alloggia in stanze senza altri servizi, una modesta colazione a base di tè, banane e pane dolce; nel frattempo altre suore parlano a bassa voce in cortile mentre spostano secchi d’acqua e lavano i loro sari bianchi e blu.
Nella pensione dove alloggio sono comprese la colazione e la cena, e mentre sorseggio il mio tè scopro che ognuna parla della giornata che dovrà affrontare, c’è chi si prepara ad andare alla casa dei moribondi, chi alla stazione centrale in cerca di corpi da recuperare e portare in ospedale, chi dai malati mentali e chi, come me, dai bambini. Nell’attraversare la strada, vedo la famiglia con due bimbi piccoli che vive sul marciapiede, non manca loro il sorriso, domani devo assolutamente portare qualcosa da mangiare ai piccoli.
 
Sospiro profondamente prima di varcare la soglia, ho paura e mi tremano le gambe, apro la porta e la vedo. Provo un forte senso di repulsione di fronte al suo corpo straziato a causa di trenta lunghi anni passati sempre nella stessa posizione, su di un fianco, con il risultato che la sua schiena è appuntita. Mi sta guardando, e mentre mi avvicino riesco a percepire che lei conosce i miei timori, provo vergogna per il senso di ribrezzo che mi suscita e, nonostante questo, la mia mano dapprima sospesa a mezz’aria, sta ora dolcemente toccando il suo corpo. Questo corpo deforme ha un nome, si chiama Sundari e ha una folta chioma di capelli neri, due occhi grandi e luminosi e una bocca quasi completamente sdentata capace di regalarmi un sorriso candido e sereno. Mi cerca con lo sguardo, ma io sto male e mi allontano.
 
Questa esperienza appena iniziata mi sta logorando, piango ininterrottamente, mi sento coccolata e sostenuta dalle compagne francesi, inglesi, canadesi, è troppo dura stare lì in mezzo a tanta sofferenza. Marco, un volontario di Roma, mi prega di non mollare e di resistere almeno 3 giorni. Mi chiedo che metro di misura sia questo, tre giorni per impazzire o tre giorni per superare la soglia della disperazione?

(continua)
 

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11/10/2022 - 8:28

AUTORE:
Daniela

Grazie Tiziana, è vero, noi siamo come loro, assolutamente sì.

1/10/2022 - 13:35

AUTORE:
Tiziana

Noi siamo come loro, che cosa possiamo imparare prestando cura a chi non può essere autosufficiente a se stesso? Solo provando compassione penso, che riusciamo a trovare quell'amore che serve per capire che tutti siamo vulnerabili in qualsiasi momento della nostra vita, è questo ci rende uguali.