Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
Lasciarono le case in gran segreto.
Arrivarono al Serchio. Era mattina.
Si spogliarono all’ombra d’un canneto.
Scesero nell’acqua, ch’era un po’ torbina,
ignudi come Dio l’aveva fatti,
ci messen. Per provarla, la manina.
L’acqua ni rifaceva i ssu’ ritratti.
In sul primo, c’entraron con paura,
un dietro l’altro, a tarponato, guatti…
Ma poi, ingannati dalla gra’ stesura,
che se n’andava zitta zitta via
non più prefonda della su’ cintura,
a quell’età la testa è una mattia,
principiarono a far li sbarazzini
come la sera a Lucca in Pelleria.
Eran tre furicchi, tre amorini
di quelli che si veden sull’altari:
uno moretto, l’altri due biondini,
alti tutti compagni e vispi e cari,
tutt’e tre boni come ‘l pane bianco,
tutt’e tre belli e coll’occhietti chiari.
Si buttavan sull’uno e l’altro fianco
a ribisciarsi. Quello là schizzava…
quell’altro a ride.. e quando uno era stanco,
andava a riva, e poi si rituffava.
E lì a fa’ sguizzi, e sotto là a rincore,
a fa’ beve, a burla’ quel che scappava.
Ma ‘l Serchio, lo san tutti, è traditore,
e ‘l su’ fondo di cotani e di mota
spesso la fa persino al notatore.
Tutt’a un tratto, al moretto ni si vòta
come qualcosa sotto… un urlo acuto…
“Mamma!” E l’ corpino, fatta un po’ di rota,
sparisce in un secondo. “Aiuto, aiuto!”
coreno i ddu’ compagni.. Un mulinello
n’affera uno come in uno ombuto…
“Mamma!...” I’ rimasto, caro firugello,
vòle porta’ soccorso… Anco lu’ giù,
giù sott’acqua, nel vortice anco quello!
“Mamma!...” E più nulla, più, più nulla, più…
In sul tardi, i ttre corpi, ripescati
da cinque giovanotti, che passando,
avevan visti i ppanni ammonticchiati,
giacevan come stassen riposando
in sulla riva, all’orlo del canneto,
che ni parava il sole, sussurrando.
C’era tant’erba intorno, un gran tappeto…
E c’era gente triste in capannelli
che discoreva come in gran segreto.
“Poveri bimbi…” “Tampussini belli…”
“Soprei un popò…” “Se almeno, ettò, qualcuno…”
“Ma si vede che, tò…” “Saran fratelli?”
“Forse, que’ bbiondi, sì… Ma quello bruno…”
“Averanno chiamato…” “Chi sa quanto!”
“Ma si vede ch’un c’era, ettò, nissuno…”
Du’ donne scalze scoppiano in gran pianto.
En du’ madre che pensan con orore
alle madre de’ mmorti e al loro stianto.
Povere madre, Gesummio Signore!
Ma l’averan saputo, l’averanno?
O aspetteranno ancòra?... Che dolore!
Sì, sì, l’hanno saputo, sì lo sanno.
Nie l’hanno detto. Furono avvisate.
E tra poghi menuti ariveranno.
Son per istrada, matte, scarmigliate,
e chiaman con dell’urli i ffigliolini…
… Anco ‘ bbimbi l’avevano chiamate,
anco lòro, anco lòro, poverini!
“Mamma… Mamma… col core, colli sguardi,
nel pericolo estremo, co’ bbraccini…
Ma l’urlo a Lucca era arivato tardi!
Gino Custer De Nobili (1933)