Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Lascio il racconto sulle vicende di mio padre per narrare di Giacomo, Gemma, la figlia Elia: i miei nonni materni, mia mamma e della loro vita a Camaiore.
Giacomo racconta:
Avevo quattordici anni quando entrai per la prima volta nella bottega di un falegname: era una mattina di primavera del 1914. Mio zio mi precedette lasciando la porta aperta. Aspettai un suo cenno per entrare nella stanza dove la luce entrava da una grande finestra. Un uomo di spalle con un gesto lento e ripetitivo passava la pialla sul pezzo di legno. Ad ogni passaggio alcuni riccioli cadevano a terra. Mi chinai, ne raccolsi uno e l’odorai. L’uomo, che nel frattempo si era girato, mi disse “O bimbo, en trucioli mia fette di polenta!” Mi piaceva il profumo sprigionato dal legno. Mio nonno si chiamava Giacomo, per gli amici Giaomino. Falegname per professione e liutaio per passione. Era nato a Montebello, una frazione del Comune di Camaiore. Mentre eseguiva i suoi lavori amava cantare pezzi d’opera. Agli inizi del ventennio fascista simpatizzò per quel movimento. Vide in Mussolini una sorta di guida che avrebbe cambiato il mondo. Non poteva immaginare in che modo. Oltre a incollare e inchiodare tavole per costruire mobili sì appassionò all’arte di scolpire il legno. Nel 1934 lavorò per settimane a una scultura che raffigurava dei giovani impegnati in vari mestieri. Una sorta di Giovane Italia dal titolo “La virtù di una Nazione” Era tanto grande da avere bisogno di un carretto per essere trasportata. Il carretto lo trovò in prestito e ci attaccò la sua bicicletta. Andò da Camaiore a Roma per farne dono al Duce fischiettando “Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina…” Sempre nello stesso anno prese dalla vetrina del salotto il violino più bello che aveva costruito, e lo inviò al re Umberto II di Savoia per la nascita della figlia Maria Pia. In cambio mio nonno ricevette una coppia di gemelli d’oro e platino con lo stemma reale. Nel 1936 Giacomo partì per la Guerra di Spagna. Dopo alcuni anni il regalo del re lo donò alla Patria quando Mussolini chiese agli Italiani oro e metalli per acquistare e costruire armamenti.
Giacomo racconta:
Il violino. L’avevo visto tra le mani del Liutaio che aveva la bottega vicina a dove lavoravo. Anche da lontano ne sentivo il profumo.
“Oh bimbo un’hai mai visto un violino?”
“Cosi da vicino no, lo posso tocca’?”
“Si, ma fa ammodo, sai quanto c’ho messo a farlo?”
La leggerezza, mi colpi la leggerezza di quello strumento.
“Ho usato due tipi di legno” mi disse l’artigiano “l’Abete rosso per la parte superiore: è più elastico e trasmette meglio il suono. L’Acero per la parte inferiore. Il legno va tagliato tra ottobre e novembre quando nel tronco c’è meno linfa. Il segreto del suono sta tutto lì, un te lo dimenticà”
Diventai grande e dopo una chitarra e una mandola diedi forma al mio primo violino. Il violino l’avevo fatto, il difficile era sonarlo. Come avevo un po’ di tempo mi mettevo lì e provavo. Di solito ascoltavo un pezzo al Grammofono poi lo sonavo così… a orecchio. Tutti mi dicevano: “Il violino è diverso devi conoscere la musica per imparare a sonarlo. Il violino è un’altra cosa”
Un amico mi prestò uno spartito. Fogli a righe pieni di Crome e Biscrome che mi davano il tempo di durata di una nota. Ma che. Provavo, provavo ma un c’era verso di sonarlo”.
Una sera avevamo finito di cenare, mi alzai dal tavolo e presi il violino in mano come al solito. La mi’ moglie mi disse: “O Giaomino, ora basta con lo zigonzago, un ne posso più, mi pare un gatto che si lamenta! O impari a sonarlo o smetti. Ci credi, mi par perfino che tu gli faccia male”
E alla fine imparai a sonarlo. A orecchio. Lo sonavo a tutte le feste. La mi’ moglie era contenta.
Gemma: mia nonna.
Gemma era nata a Piano di Mommio nel Comune di Massarosa nel mese di novembre del 1901. Con i genitori contadini abitava in una casa colonica in mezzo ai campi. Gran parte di quelle aree palustri vennero bonificate durante il ventennio fascista. Giacomo era poco più che un ragazzo quando, insieme al suo padrone si recò a fare dei lavori di manutenzione alla casa colonica dove abitava Gemma. Rimase colpito da quella giovane ragazza che usava l’uncinetto e la falce con la stessa maestria e la sera nel canto del fuoco leggeva le gesta dell’Orlando Furioso. I due giovani con il benestare del padre di lei iniziarono a frequentarsi e a pensare al matrimonio. Giacomo impiegava ogni lira che guadagnava per acquistare il legno per costruire i mobili necessari, Gemma dopo il lavoro nei campi sì dedicava alla preparazione del corredo. Dopo il matrimonio nel 1920 i due giovani vennero ad abitare sul Colletto Santucci, una località del Comune di Camaiore. Gemma per gli abitanti di Camaiore era una pianigiana.
Donna dal carattere ruvido non era abituata a fare tanti complimenti. Nemmeno ai nipoti. Gemma amava cantare, la domenica i miei nonni cantavano insieme e dopo pranzo fumavano una sigaretta, l’unica della settimana.
O dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore…
Gemma cantava anche quella mattina:
M’ero alzata presto. L’aria era limpida e il cielo sereno. Da quando avevo aperto gli occhi la melodia della Tosca non mi aveva abbandonato. Avevo rassettato la cucina e dato le consegne ai ragazzi. Il carretto era pronto con le verdure da portare al mercato. M’erano venuti de’ pomodori cosi grossi da far invidia, le melanzane sembravano dei fiaschi! “San Giovanni manda il freddo secondo i panni” dicevano i vecchi. Erano tempi duri e quelle verdure facevano comodo. Con i soldi ricavati dalla vendita compravo al mercato nero quello che mancava o le barattavo con un cotto di fagioli o una brancata di farina di granturco per fare la polenta. Ogni tanto la mischiavo a quella di grano e ci facevo il pane. I mi’ figlioli lo chiamavano “il pane d’oro” se chiudo gli occhi sento ancora il profumo. Quella mattina imboccai la strada che dal Colletto Santucci scende alla provinciale per Camaiore. Il sole era già caldo. Per non alzare la polvere andavo piano giù per lo sterrato. Era tardi. Immaginavo gli altri commercianti intenti a montare il banco. Affrettai il passo. Ero a metà della via Cesare Battisti quando due giovani militari tedeschi mi vennero incontro urlando “No mamma, non andare… dentro. Pericolo… bum…bum!”. Poi mi indicarono una corte e mi fecero cenno di entrare. Pensai che volessero rubarmi la verdura. Entrai dentro rassegnata al peggio. I due giovani si misero vicino a me. Sempre a gesti capì di non muovermi. Passarono uno, due minuti, forse di più, forse di meno. Loro non si erano mossi. Nemmeno io. Sentì un rumore sordo come di temporale. Guardai l’azzurro del cielo sopra le nostre teste. Il rumore si avvicinava ancora. Con le mani mi coprii orecchie.Un attimo e dal cielo scesero giù tutti i temporali del mondo. Con le orecchie tappate dalle mani sentii le mi’ budella vibrare come le corde di un violino impazzito. Il rumore come era arrivato scivolò via. Dopo un tempo che non riuscì a calcolare levai le mani dalle orecchie. Silenzio. Lasciai la corte dopo i due giovani. Il sole non si vedeva più. Una nuvola di polvere grigia l’aveva inghiottito. Urla, dalle case uscirono tutti come formiche da un formicaio. Poi la notizia serpeggiò per la strada come un fulmine: un cacciabombardiere inglese aveva sbagliato obiettivo. Al posto del comando tedesco aveva colpito la piazza del mercato di Camaiore. Era il 22 luglio del 1944.Il sangue dei morti e dei feriti si mischiò con le verdure e il legno dei banchi del mercato. La guerra era dura anche per chi non stava al fronte. (continua…)
Franca Giannecchini