Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Nel sogno ero in una palude. All’inizio la nebbia che danzava sulla superfice scura mi impediva la visuale, poi piano si diradava come stracci di zucchero filato portati dal vento. Davanti a me cubetti di ghiaccio come Iceberg. Non riconoscevo il luogo. Provavo a camminare ma i piedi non si muovevano. Mi concentrai sul destro. Piegai leggermente il busto nella direzione opposta, sentii il piede staccarsi e ricadere giù risucchiato dalla melma. L’acqua era fredda, i cubetti continuavano a ballare.
Mi svegliai nel mio letto, dalla finestra socchiusa entrava la luce. Sentivo Il cuore battere forte nel petto e nelle tempie. La maglietta azzurra che usavo come camicia da notte era appiccicata al mio corpo, un brivido mi attraversò come un lampo. In quel momento affiorò un ricordo; un pomeriggio di sei mesi prima.
Ero rientrata a casa, da alcuni giorni mio padre era in ospedale. Nonostante la bella giornata di sole tutte le imposte della casa erano chiuse, nella penombra mi avvicinai alla porta della camera dei miei genitori, chiusa anche quella. Mia madre non chiudeva mai la porta “Mi fa soffocare” diceva. L’aprii piano, dormiva, si capiva dal respiro profondo. La richiusi. Andai in bagno a farmi la doccia. Mi vestii e tornai a guardare attraverso la porta socchiusa, dormiva ancora. Di solito al minimo rumore sì svegliava. Il respiro era più lieve. Entrai nella stanza e la chiamai: “Mamma, sono a casa, tra un po’ vado in ospedale da papà” provai a scuoterla, niente. Continuava a dormire. Sul comodino insieme a Famiglia Cristiana c’era un bicchiere d’acqua riempito a metà e un blister fuori dalla scatolina: vuoto.
“Mamma! Mamma!” mi venne da piangere, non lo feci. Avevo paura che svegliandosi sì spaventasse. Iniziò a borbottare qualcosa.
“Che c’è… perché urli… non sono sorda… lasciami dormire”
“No!” le urlai “non devi dormire, dai alzati, alzati, facciamo due passi, ti faccio un caffè” l’avevo visto fare nei film.
“No! Non voglio il caffè, non mi fa dormire io… ho bisogno di dormire” e chiuse di nuovo gli occhi. Il colore del suo viso era passato dal bianco al rosa. Andai in bagno presi la bacinella bianca piccola, quella che usava di solito. La riempii d’acqua, presi tutti i cubetti di ghiaccio dal congelatore. Tornai in camera e dall’armadio presi un asciugamano da bidet. Lo bagnai e strizzato glielo misi sulla fronte. La sua reazione fu come se le avessi dato una scossa ad alta tensione, aprì gli occhi
“È… gelata! Mi verrà un… malanno!” mi disse. Io continuai a bagnare, strizzare e appoggiare il panno sulla fronte fino a che la sua voce non fu più chiara.
“Mamma…”
“Volevo solo dormire… dormire… dormire” Mi fece promettere di non parlare con nessuno dell’accaduto, le dissi di sì. Feci di più, lo cancellai dalla mia mente fino a quella notte.
Anche di quell’episodio in quel momento incolpai mio padre, che tornò a casa pochi giorni dopo. Poi di nuovo un ricovero in ospedale e un altro intervento chirurgico. L’operazione subita da mio padre non aveva ottenuto i risultati sperati. Molto del suo tempo lo passava in casa.
L’ombra di mio padre di giorno e di notte vagava tra le mura domestiche. La perdita di peso lo faceva assomigliare a un uomo appena uscito dal cancello di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Mia madre cercava conforto nella parola di Dio, quel Dio che io non conoscevo. A tutto quel dolore mi ribellai, lo feci nell’unico modo che in quel momento ritenevo possibile: dopo il lavoro ogni scusa era buona per rientrare a casa molto tardi. Speravo che mio padre dormisse. Un giorno sperai di non trovarlo più.
Mio fratello passava molte ore insieme a mio padre.
Una sera avevo appena finito di lavare i piatti, quando Francesco venne in cucina “Ti va di fare un giro?” mi disse. Prese le chiavi della sua Fiat 127 bianca da sopra la credenza, senza parlare gli feci un cenno con la testa e lo seguii. A lui piaceva guidare e spesso con gli amici andavamo a Pedona a guardare il sole che sprofondava nel mare. Ma quella sera non prese la strada per Pedona. Arrivammo a Passo Croce mentre il sole tingeva di rosa le Alpi Apuane. Il silenzio era interrotto dal vento che faceva muovere il paleo.
Mio fratello iniziò a parlare della nostra passione per la montagna, delle serate passate con gli amici a far festa e delle vacanze passate sulle Alpi Marittime. Guardavo il monte Sumbra e ascoltavo.
“Nostro padre lo hanno mandato a combattere, sulle Alpi Marittime” disse mio fratello. Un Gracchio ritardatario volteggiò sulle nostre teste prima di sparire tra gli alberi “Avrebbe preferito pescare le trote con le mani e buttarsi nella Turrite dal Ponticello”
Non risposi. Rimanemmo in silenzio ad ascoltare il vento. Il vento si fermò e lui continuò a parlare. Seppi in quell’occasione che mio padre, per dimenticare gli anni passati in guerra sarebbe voluto andare in Kenia. Rinunciò per rimanere vicino ai genitori che non condividevano la sua scelta.
Tornammo alla macchina che la luna illuminava i torrioni del Monte Corchia. Rientrammo a casa senza parlare. Nei giorni successivi mio fratello continuò a far sentire la sua presenza tra le mura domestiche, io continuai la mia vita.
Mia mamma usciva di casa giusto il tempo per fare la spesa.
“Lunedi prossimo ho un controllo medico, lo devo disdire” disse un venerdì sera.
“Lunedi sono libera, rimango io con papà” le risposi.
Nuove cure mediche lo aiutavano nella sua dipendenza dall’alcol, i nuovi antidolorifici facevano effetto. Il suo umore migliorò. Anche la nostra vita. Piano piano e con fatica cercai di ricucire il rapporto con mio padre. No so se lo feci per lui e per me.
Un giorno di primavera
13 marzo 1981. Uscì Icaro: il doppio LP di Renato Zero registrato durante la tournee dell’anno prima. Due mesi dopo ero a casa con mio padre.
Quel giorno mia madre era uscita a fare delle commissioni. Io e lui eravamo sulla veranda per godere della bella giornata.
“Perché ti alzi? Ci siamo appena seduti” gli dissi.
“Ho sete, vado a farmi un goccetto, oggi è caldo” disse strizzandomi l’occhio.
“Lo sai che ti fa male, il dottore ha detto che non devi mischiare le medicine con l’alcool”
“Sa una sega il dottore, un bicchiere di vino un’ha mai ammazzato nessuno”
“Uno no! Ma a te uno non basta”
“Un rompe i coglioni come tu ma’”
Un calabrone volteggiò sulle nostre teste, mio padre lo scacciò con la mano. Provai a cambiare discorso per dissuaderlo.
“È maggio, potresti fare un fioretto alla Madonna. Non dire parolacce e non bere”
“Lascia stare la Madonna, Madonna…” bestemmiò “io gli darei foco, a lei e a tutti i santi”
Dall’angolo della strada vidi arrivare il postino, passò davanti al cancello senza fermarsi. Io continuai:
“Ti ricordi quando prese fuoco l’altarino a Camaiore?”
“La tu’ mamma e le ‘su segate”
“Il nonno Giacomo le aveva dato un mobiletto con la ribaltina...”
“Un’aveva altro da fa’” disse tra i denti
“...la mamma l’aveva coperto con una tovaglia bianca ricamata e sopra aveva appoggiato un bel mazzo di fiori, fece sistemare a me le due candele”
“Segate”
“Era bellino l’altarino alla Madonna per il mese di maggio. Ci aveva comprato il quaderno per scrivere i fioretti, lo ricordo ancora, era piccolo con la copertina nera”
“Segate. Via, su, ci vado da solo a prendermi il vino”
Mio padre appoggiò le mani sui braccioli della sedia di ferro rivestita di strisce di plastica e fece l’atto di alzarsi, ricadde a sedere. Continuai a parlare:
“Segnavo tutte le azioni buone che facevo, in realtà poche, rinunciavo giusto a qualche gelato” risi.
“Topate, en topate”
“Quel giorno ero sulla terrazza con la nonna Gemma”
“Bona quella…”
“… avevo sete e scesi le scale per andare in cucina quando sentii odore di fumo. Andai di corsa in bottega ad avvisare nonno Giacomo. Avevo messo le candele troppo vicine alla tenda. La mamma disse: “È un miracolo che sei scesa, poteva prendere fuoco tutto”
“Un mi fa bestemmià!” si girò verso di me “allora, me lo prendi o un me lo prendi il vino? Ma quello bono, non quello che lascio per i tuoi zii. Loro mi portano per il culo e io gli do il picciolo” rise, risi anch’io.
“Ecco qua!”
“Mi fa una sega a me quello lì, riempilo ammodo”.
Ritornai nella stanza a completare l’opera e lo riconsegnai a mio padre, che ne bevve un sorso.
“Poi te, un fa’ tanto la santarellina, ti ricordi quella volta che sei tornata a casa briaa?” mi disse sorridendo.
Un passerotto volò sulla ringhiera della scala saltellando come un ginnasta sulla trave. Se ne andò, dopo avere cacciato un insetto dalla pergola di uva fragola.
“Ubriaca, diciamo che avevo bevuto un po’, non ero abituata”
“No, no, eri proprio briaa. Erano venuti a trovarvi i vostri amici, da dove un ricordo, Bologna? Torino?
I suoi occhi diventarono due fessure e si persero nel vuoto.
“Io ho fatto il militare a Cuneo” il tono della sua voce tornò allegro “m’ero alzato a fumà una sigaretta e bere un goccetto di vino quando vi vidi, c’era anche quel capellone… come si chiama?”
“Michele, ora i capelli li ha corti”
“Bene. Un’avevate nemmeno acceso la luce di cucina, io sono sordo ma ci vedo bene. Lì per lì mi spaventai. Non stavi in piedi”
“Esagerato...”
“Esagerato una sega, Francesco farfugliò qualcosa, che non ricordo. Ma io avevo capito” mi disse increspando gli angoli della bocca “Ti ricordi quello che ti dissi la mattina dopo?” Bevve un sorso di vino e riappoggiò il bicchiere sulla mensola.
“Certo, ‘Oh bimba! Mestiere che entra, le sbornie vanno prese, più spesso e più leggere’ dissi, cercando di imitare la sua voce e continuai “Dai, che non è più successo…”
“Io, non ti ho più vista” ci mettemmo a ridere.
L’aria profumava di rose. Chiusi gli occhi e inspirai con il naso per catturarne il profumo. Allungai la mano verso quella di mio padre. Lui la strinse. La strinse più forte. Io aprii gli occhi, lui mi fece l’occhiolino.
“Andiamo a fare un giro?” disse
“Dove?”
“A salutare tutti”
“Andiamo!”
Ci alzammo leggeri mano nella mano. Sopra i tetti delle case e i campi di Camaiore. Sempre più in alto. Le case e i campi come puntini. La mia mano nella sua. Lui dava la direzione, usava la testa come un timone. Ci abbassammo, i campi come tovaglie colorate, le case più grandi. Con la mano libera cominciò a salutare sopra le case degli amici. Anch’io. Di nuovo l’occhiolino e un cenno della testa come a dire: “Andiamo?” “Andiamo!” risposi alla stessa maniera. Con una virata cambiammo direzione. Il vento ci accarezzava, il sole ci scaldava. Una virata ancora e di nuovo giù, di nuovo l’occhiolino e il cenno con la testa.
Eravamo dalla parte opposta del paese. Lo interrogai con gli occhi “Vuoi salutare anche loro?” mi rispose muovendo l’indice della mano libera come un metronomo, poi piegò la mano all’interno del corpo verso la patta dei pantaloni. Mi fece l’occhiolino. Risi. Prima che lo potessi fermare si liberò del liquido contenuto nella sua vescica fino all’ultima goccia. Distribuì il liquido giallognolo non sui campi colorati ma sulle terrazze di un paio di abitazioni. Un uomo dai capelli grigi alzò la testa in cerca di una nuvola. Il sole lo accecò. Un’altra virata e via, lontano da chi lo aveva deriso.
Mi svegliai, mio padre mi guardava e rideva “Mi dai un goccetto” mi disse e rise.
Per l’ultima volta lo vidi ridere.
Arrivò l’autunno, il vento e le foglie secche portarono via mio padre.
(continua…)