Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Questo è un omaggio a Michela Murgia scritto il 21 luglio del 2012 dalla nostra Lily che chiede di essere ripubblicato oggi con questo titolo.
Grazie Lily e grazie Michela!
Quando arrivi dal “Continente” in Sardegna, a Olbia, con la O chiusa, per un vezzo tutto personale, il profumo del corbezzolo e del mirto, misto al vento di mare ti inebriano e rappresentano l’inizio della vacanza. Sono la prima idea che ti fa della Sardegna, di una terra che si protende verso di te profumata e disponibile. Ma sicuramente, se solo allungherai lo sguardo e l’attenzione oltre le sue montagne, ti renderai conto che sì, è un posto bellissimo ma tutt’altro che semplice da capire e per niente disponibile ad una conoscenza superficiale. Fa parte dell’Italia, ma giustamente rivendica una sua identità e diversità. Che è giusta e sacrosanta. A differenza della Padania, che è una roba inventata con tutti i suoi ridicoli riti celtici, la Sardegna, la sua gente, ha le radici in una civiltà antica, quella nuragica, misteriosa e magica. La lingua sarda non è un dialetto, ma una vera e propria “lingua”. Parallela all’italiano. Di conseguenza anche i suoi scrittori sono “diversi”, soprattutto quelli come Michela Murgia, che parlano della propria terra con lo sguardo al passato - o forse al presente? Leggere il suo Accabadora sotto l’ombrellone non è il massimo del rilassamento cerebrale, ma perché impedire al nostro cervello di pensare solo perché è estate e siamo in vacanza? Visto che la stupidità non risente dei cambi di stagione cerchiamo, per chi la possiede, di mantenere viva e vegeta l’intelligenza, sempre e comunque. E allora lasciatevi trasportare in un mondo arcaico, complicato e semplice allo stesso tempo, liberate la vostra mente da qualsiasi “giudizio” morale e immergetevi in quello che potrebbe definirsi il “senso” della vita, paradossalmente la sua fine. Perché se il nascere non è una scelta personale, il continuare la propria vita o scegliere come finirla può esserlo. Senza entrare nella questione etica, come ho già anticipato, visto che ognuno di noi ha le proprie giuste convinzioni, affrontate il tema principale di Accabadora con lo spirito giusto, quello, come dice Tzia Bonaria, di capire che lei è “l’ultima madre”. L’Accabadora, Tzia Bonaria, era in Sardegna la dispensatrice della “grazia”, della morte “dolce”, colei che metteva fine alle sofferenze e all’agonia delle persone. E’ naturalmente questo un tema delicato che può offendere o essere condiviso dalle coscienze. Essere a favore oppure no all’eutanasia, non è il modo con cui bisogna approcciarsi a questo libro, secondo me. Bisogna immergersi invece in un contesto di vita, di tradizioni, di profondo dolore o meglio di “consapevolezza” del dolore. Bonaria si fa carico di un “compito”, all’interno di una società arcaica, con regole non scritte, ma condivise. Ha assunto su di sé una responsabilità che le porta la paura e la “distanza” dei suoi compaesani, i quali le riconoscono solo la solitudine dolorosa di quella che lei considera una “missione”. Che forse non le verrà perdonata. Neppure da Maria, la sua “figlia d’anima”, modo poetico che i sardi usano per definire un’adozione non “ufficiale”, quella di una donna che si prende cura di una bambina “trascurata” dalla madre vera oberata dalla miseria e forse da una mancanza di “maternità”. Qualche volta infatti il corpo di una donna può essere solo un “contenitore” perché la “maternità” parte dal cuore, dall’ “anima” appunto, non dalla pancia. In questo profondo e oscuro libro, nella sua apparente linearità, c’è un cerchio magico che si chiude, inizio-fine, vita-morte. Tutto ciò ricorda la circolarità dei pozzi “magici” sardi, dove le donne andavano a cercare la “fertilità”. Ritornando al “compito” di Tzia Bonaria, con un paragone improprio, d’altronde io non ho mai neanche lontanamente accampato pretese di critica letteraria, esprimo solo le mie personali emozioni, vorrei che leggeste Borges. Nell’Aleph o in Finzioni, c’è un racconto, trovatelo, in cui Giuda è il vero “Cristo”, perché ha preso su di sé la “maledizione” ed anche l’onere, con il suo tradimento, di salvare l’umanità. In un rovesciamento affascinante, complicato e tenebroso dei ruoli. La dannazione del divino. Così Tzia Bonaria ha assunto su di sé il ruolo terrificante e salvifico dell’Ultima Madre. Una madre per nascere, una madre per morire.
E non dite mai, vi prego, miei orgogliosi e saccenti moralisti: “Io di quest’acqua non ne bevo!” Rischiate di abbeverarvi a ben altre putride fonti, credendo che Dio sia autorizzato, da voi stessi, al perdono. Ma lei non lo farà, ve l’assicuro, perché il perdono divino passa inesorabilmente per quello umano.