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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
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La mia nonna Lea n.2

29/8/2023 - 10:47


"So' dell'uno, quando non c'era nessuno!" 

La mia Nonna Lea


Da quando sono nata ho vissuto in una famiglia allargata perché i genitori di mia mamma Mara hanno sempre abitato con noi. Nonna Lea e nonno Ivo erano come secondi genitori, che a me e mio fratello non hanno mai dato scappellotti né ci hanno granché rimproverato, piuttosto sono stati dei grandi e amorevoli narratori di storie.


Nonna Lea di cognome faceva Innocenti, perché il suo bisnonno Michele proveniva dalla rota dei trovatelli del Santa Maria della Scala di Siena. Era più vecchia di nonno di tre anni, e questo particolare lo sottolineava spesso quando parlava del suo passato; perché nel 1927 l'anno in cui si era sposata era raro che la sposa fosse più vecchia dello sposo.


L'altra particolarità di nonna era il suo anno di nascita che sbandierava a destra e a manca per farci partecipi, appena se ne presentava l'occasione, che era nata nell'uno, il 12 gennaio 1901, il primo anno di un nuovo secolo. Un'epoca che si avvertiva lontanissima negli anni '60 quando lei ci raccontava la sua storia e ogni volta pronunciava l'inevitabile detto: «So' nata nell'uno, quando non c'era nessuno!». Lo pronunciava con un'espressione fra il solenne e il faceto, per perdonarla se non sapeva tante cose, se era rimasta indietro e non capiva il progresso. Non era affatto vero perché nonna Lea era piuttosto sveglia, nonostante le tante batoste che le erano capitate nella vita, si vantava di sapere le tabelline a menadito, sebbene fosse andata a scuola solo fino alla terza elementare. Con noi marmocchi non c'era storia in questo campo: vinceva sempre lei. Quando poi volevamo passare il tempo in una giornata estiva temporalesca e non potevamo giocare all'aperto, andavamo nella sua camera da letto. Era il suo regno, dove passava gran parte della giornata. Sferruzzava instancabilmente con sottilissimi ferri da calza per produrre spesse calze di lana da lavoro per babbo e nonno, o dove la mattina leggeva imperterrita “L'Unità” di babbo. Benché fosse una cattolica praticante non disdegnava di passare il tempo, sorbendosi il quotidiano comunista così austero, con le paginone piene di parole fitte, fitte e pochissime fotografie in un bianco e nero sgranato, oppure salmodiava preghiere a noi sconosciute che leggeva in un consunto messale.


Quando arrivavamo noi, i maltrangoli, come ci chiamava in gergo familiare, sapeva quello che le avremo chiesto. Volevamo che ci raccontasse delle storie vere che ci sembravano le novelle più interessanti: le vicende della sua infanzia, così lontana perché vicina all'anno uno del famoso secolo breve. Intanto ci diceva che lei aveva passato almeno cinque guerre in vita sua. Questa notizia ci sembrava esagerata ma lei pazientemente ce le enumerava: «Nel 1905 ci fu la guerra d'Eritrea, nell'11 quella della Tripolitania e Cirenaica, poi arrivò quella grande del 15-18 e a tal proposito citava un aneddoto che noi trovavamo favoloso: una donna parlando con un'altra disse: "È arrivata una lettera dal fronte: coraggio Aristea, il nostro Paride è salvo!"». Poi continuava con l'elenco delle guerre: «Quella del 1935 detta d'Abissinia e alla fine la peggiore di tutte, quella del '40». Io le dicevo, per consolarla: «Nonna ma erano quasi tutte guerre lontane da te, non le hai viste davvero!». E lei scuotendo il capo invariabilmente rispondeva: «Eh bimbi, ricordatevi le guerre so' tutte brutte e ci si rimette tutti quando scoppiano, anche se so' lontane!».


Arrivava poi il momento delle storie più belle e interessanti, quelle della sua famiglia, con tanti fratelli e sorelle e zii e cugini, e di personaggi strani e divertenti per noi: «Malerba, Bacchiola con le boccole all'orecchio, Gianni Moccolo, Bernino lungo lungo e fino fino». Noi pensavamo che questi racconti per lei fossero come le avventure di Salgari e invece erano storie vissute sulla sua pelle, tragedie, paure, incertezze e sofferenze, eppure nonna possedeva una leggera vena d'ironia, un umorismo semplice che rendeva i racconti meno tragici,in modo da farceli arrivare come fossero una sorta di saga familiare comprensibile e favolosa.


Ecco come cominciavano i suoi racconti:
«I figlioli avrebbero dovuto essere sei, ma la prima, “la povera Mietta” era morta appena all’età di dodici anni. Allora quasi ogni famiglia era abituata a perdere un figlio o una figlia piccoli, ma i figli sono figli e la loro perdita è come una macchia nera che non si lava più. Dopo Mietta, fu la volta di Pio, il morettino portato via dalla peritonite a solo nove anni e la mia mamma finché visse, li ricordò sempre pensando ai loro capelli neri che non ebbero mai la fortuna di diventare bianchi.
La primogenita allora diventai io. Non mi mandavano più a scuola ormai! A quei tempi, i maschi potevano andare a scuola, se non erano troppo svogliati, fino alla quinta elementare, mentre le femmine fino alla terza, giusto per imparare a leggere, scrivere e fare un di conto, tanto per stare in casa bastava e avanzava.
Ma a me piaceva parecchio andare a scuola, volevo imparare, stare con le compagne a chiacchierare, eppure, appena ebbi finita la terza elementare, non potei più continuare e, anche se avevo imparato tanto bene le tabelline e tutta l’aritmetica, piangendo mi toccò passare il mio grembiulino nero alla sorella più piccola.
A dieci anni avevano caricato sulle mie spallucce la responsabilità degli altri mocciosi della famiglia. Come se fossi una piccola donna, dovevo badare a loro quando la mamma andava a lavare i panni o a fare le faccende dai signori.
Ma una brutta sera, mentre s'era tutti intorno al tavolino per la cena, allora sì che mi misi a piangere forte perché il babbo ci disse che si sarebbe andati via dal paese per trasferirsi in campagna, in un poderino che si chiamava Poggio alla Famina, e il nome, come potete immaginare , era già tutto un programma. Per me la campagna rappresentò una punizione, essere lontano dalla vita: scarpe grosse, piene di fango, niente bei nastri nei capelli, niente giochi nelle viuzze del paese, buio presto e buio pesto tutt’intorno, fruscii e ululati nelle lunghe notti d’inverno e freddo, tanto freddo».


La sua avversione per la campagna non venì mai meno, neanche quando, diventata nonna, dovette abbandonare le sue beneamate “lastre”, il lastricato delle vie e della piazza dell'antico paese, per trasferirsi nella nuova casa costruita dalla Montecatini per i minatori nel nuovo quartiere ai margini del paese, verso i primi campi.


«A Poggio alla Famina continuai il pesante compito di casalinga e balia, stavo dietro ai fratellini e alla sorellina mentre la mamma ogni mattina all’alba partiva con il babbo per i campi a cercare di cavare qualcosa dalla terra grama. Per un periodo mi avevano mandata in un podere vicino, dalla vecchia Alduina che m'insegnò a fare il pane e la pasta, e lo vedete come ci so fare col mattarello, quando tiro la sfoglia. Ovvia, ce la faccio sempre a fare i maccheroni e i tagliatini che so meglio di quelli che si comprano!
La mia mamma mi lasciava anche il mi' fratello Ivo che aveva appena un anno, e invece che con le bambole c' avevo da fare con un bamboccio di ciccia, senza contare che gli altri figliolini non erano tanto più grandi: Aldo, il primogenito, aveva nove anni, Mietta, “seconda”, sette anni e infine il piccolo Ivo, poi dopo qualche anno arrivò anche l'ultima, Francesca. Erano tante le bocche da sfamare, che i miei genitori non ce la facevano a mettere il pranzo con la cena. Spesso ci mettevano a letto presto, con poco e niente nella pancia, e la mi' mamma cercava di addormentarci in modo da farci scordare i morsi della fame.

Fu così che babbo Beco prese la decisione di partire per l'America a cercar fortuna, lasciando noi quattro ragazzetti e la mi' mamma incinta , ma prima di partire almeno ci riportò in paese. Mi ricordo qualcosa di quel periodo perché ero io che scrivevo al mi' babbo, al posto di mamma che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né scrivere».


I racconti di Lea erano i capitoli della sua vita, che piano piano si srotolavano lungo il nuovo secolo. Si arrivò alla fine degli anni '20 quando nonna, che era diventata una bella ragazza, alta, snella dai capelli bruni già raccolti in uno chignon basso, gli occhi scuri e vellutati, cominciò a fare la governante in una ricca famiglia massetana che ad un certo momento decise di trasferirsi per lavoro in Romagna a Cesena. Anche Lea partì, e quello le sembrò un viaggio all'altro capo del mondo. Ci raccontò del lungo percorso in treno, delle numerose gallerie sull'Appennino, quando il fumo che usciva dal camino della locomotiva gli tinse la faccia di nera fuliggine. Gli anni passati in Romagna furono mitici per una ragazza di povere origini come lei. Serate a teatro per la stagione operistica, in estate passeggiate lungo il mare di Rimini e Riccione con gli ombrellini aperti per ripararsi dal sole. Nonna non svolgeva le faccende pesanti della casa, per quello c'era "un omino", come lo chiamava lei, piuttosto era un po' la dama di compagnia della signorina Gina, la figlia dei padroni, che più o meno aveva la sua età. Nonna Lea ci voleva far capire che quegli anni passati sulla riviera adriatica, non furono di lavoro, ma assomigliarono più a una lunga vacanza dorata.


Quando poi la signorina si sposò, la nonna ritornò in Maremma dalla sua famiglia che nel frattempo si era trasferita vicino a Follonica in una modestissima casa di legno in Vall'Onesta, di nuovo in campagna, ma questa volta su una terra prospera e con vista mare. Fu in questo periodo che conobbe un baldo giovanotto di bella presenza, più giovane di lei di tre anni, e dalla parlantina sciolta, Ivo, abitante a Massa Marittima, di professione ciabattino, ma che aveva trovato da poco lavoro nelle miniere. Si misero "a fare l'amore"e ben presto si sposarono, così nonna ritornò nella sua natia Massa Marittima.


Nel 1928 nacque Mara, la mia mamma, l'unica figlia, perché, come disse per tutta la vita: - rimasi tre giorni sopra a parto e fui costretta ad andare a partorire all'ospedale, che a quei tempi ci portavano solo le moribonde, e ci volle pure il forcipe per far nascere la mi' bimba.. Quel parto mise a rischio la vita della nonna e di sua figlia, ma fortunatamente tutto andò a finire bene.


Purtroppo l’avversa fortuna aspettava ancora nonna Lea al varco, e questa volta con una prova che cambierà per sempre la sua vita. Mia mamma Mara aveva appena due anni, quando nonna prese la febbre tifoide, che la portò sull'orlo della morte. Nonno raccontava che ebbe una febbre altissima, dolori, astenia e poi piombò in un grave stato confusionale tanto da non capire la differenza tra realtà e fantasia, si metteva a cantare e non riconosceva più i familiari. All'epoca ancora non esistevano gli antibiotici e fu curata alla bell'e meglio, la sua tempra forte la salvò dal peggio. Sfortunatamente questa malattia le lasciò uno strascico notevole: crisi convulsive lievi. Durante queste crisi, che duravano pochi secondi, nonna smetteva di parlare, lo sguardo perso nel vuoto, non si muoveva, masticava in modo involontario; dopo non ricordava quello che era successo e noi le si diceva che aveva avuto il disturbo, così veniva chiamato in famiglia questo suo stato d’incoscienza, gli davamo un bicchier d'acqua, lei riprendeva colore e ricominciava a parlare normalmente.


Questo disturbo l'accompagnò per il resto della vita, anche se con l'età diminuì d'intensità e si presentò più raramente. Nonno Ivo raccontava che nonna dopo la febbre tifoidea si era dimenticata tante cose, e che non era più la donna di prima, brillante, energica; io l'ho conosciuta sempre con il suo disturbo e mi è parsa una donna calma e tranquilla, che non se la prendeva molto delle cose, che ci raccontava tante storie interessanti,che non era prepotente con noi monelli e soprattutto era quella che in famiglia aveva uno spiccato senso dell'umorismo; quando faceva il verso delle persone, e ci faceva percepire il lato buffo delle situazioni. Noi si diceva: «Se dovesse cadere una bomba da un momento all'altro, la nonna si scanserebbe di un metro e la lascerebbe cadere».


Quando nonna doveva uscire per andare in chiesa alla Messa, oppure al cimitero, i miei mi mandavano con lei, per farle compagnia e per controllare che non cadesse. Ci ho ripensato da grande e mi sono chiesta cosa avrei potuto fare in suo aiuto io che ero bambina. Una volta capitò che eravamo mano nella mano per andare in chiesa e a un tratto nonna cadde d'un colpo sul marciapiede; sapevo che cosa era successo e non mi scomposi più di tanto. Chiamai un signore che era dall'altro lato della strada e gli spiegai che cosa era accaduto a nonna e lo pregai di aiutarmi ad alzarla e a farla sedere sul muretto; meno male che non si era fatta niente: come ogni volta si riebbe dopo un attimo, mi riconobbe subito, fui sollevata, il pericolo era scampato ancora una volta. Sia io che mio fratello siamo stati istruiti a badare a nonna e per noi non è stato mai un grosso problema, abbiamo sempre svolto abbastanza bene il nostro compito; era una persona fatta così e basta! Nonna Lea era un’ottima cuoca, e quando ero molto piccola era lei che cucinava in famiglia; erano piatti antichi, dai sapori diversi, forse più saporiti, ma semplici; poi un giorno a causa del suo disturbo nonna appoggiò la mano sul piano arroventato della cucina economica, si bruciò e per un periodo non poté toccare l'acqua e nemmeno cucinare. Fu in questo frangente che il timone della cucina passò a mamma che dovette cominciare dall'abc, ma la condotta della cucina piano piano cambiò e non fu più la stessa di prima. Eppure ricordo sempre con golosità le patate fritte di nonna cotte nella grossa padella nera di ghisa o i migliacci salati che ci preparava a merenda.


Ho vissuto con nonna Lea e la mia famiglia fino a quando non mi sono sposata e nonna ha avuto la possibilità di diventare bisnonna del mio primogenito Emiliano. È morta quando il bimbo aveva tredici mesi. Si è ammalata, ma non so bene di quale malattia: è sempre stata considerata fragile, a causa del suo disturbo, anche se non le ho mai visto prendere l'influenza. Aveva appena compiuto 82 anni e ormai si considerava vecchissima perché i suoi parenti erano morti tutti più giovani. Credo che nonna, da grande narratrice qual era, mi abbia in qualche modo influenzato lasciandomi il testimone di depositaria e, a mia volta, narratrice delle storie familiari, piccole storie che costituiscono i tanti tasselli del grande libro della vita e col passare degli anni sento di esserle sempre più grata per questo grande patrimonio che mi ha tramandato.


Antonella Cocolli

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