Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Maddalena DNA di donne speciali
È una grande fortuna aver avuto genitori narranti che mi hanno concesso il privilegio di conoscere la mia storia di madre in madre. Storie semplici e spesso dolorose di donne speciali che hanno saputo creare una grande famiglia.
Era nata nel 1867 a Mesagne, una cittadina nei pressi di Brindisi, Maddalena, altrimenti detta nonna Nena vecchierella. Quando io sono nata lei aveva già 93 anni ed era una donna piccolissima, era la mia bisnonna materna. Il mio ricordo è vivo, la rivedo con le gonne lunghe e tante sottane, il foulard di cotone in testa a coprire un sottilissimo strato di capelli candidi, raccolti poi in una treccina, sapientemente acconciata da mia nonna. Col suo bastone nodoso, da contadina, sul marciapiedi della casa dei miei nonni materni, passeggiava al sole, come una lucertolina. Lei era la mamma di nonna Pina. La vecchiaia le aveva rubato la vista ed in seguito ad una brutta caduta si era rotta un femore e aveva un’andatura claudicante. Sempre allegra, vivace e soprattutto famelica e golosa di caramelle.
Maddalena era stata una bracciante agricola sin dalla più tenera età e lo aveva fatto finché ne aveva avuto la forza. Andava a raccogliere il tabacco in Albania, con altre braccianti, trasportate su grandi zattere. Aveva sposato in prime nozze Antonio e dalla loro unione erano nate Giuseppina e Rosina. Rimasta vedova giovanissima e dovendo lavorare per tirare avanti, decise di lasciare le bambine in un istituto di Suore e poi, sposato un altro uomo di nome Salvatore, aveva avuto una terza figlia femmina, Teresina, che tenne con sé, lasciando le altre due ancora in orfanotrofio. A dispetto della sorte che la madre le aveva riservato, mia nonna l’accolse in casa sua, quando già vecchia e inferma aveva bisogno di aiuto; nonna Pina la tenne con sé, con rispetto e cura fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1971 all’età di 104 anni. Era stata una donna forte e per quell’epoca anche spregiudicata, perché lavorava fuori dall’Italia ed anche perché aveva avuto due mariti.
Da madre, dico che sicuramente la sua scelta non fu facile, distaccarsi da 2 figliole in tenera età. Voglio pensare che fu un trauma, che fu una imposizione del nuovo sposo e voglio fortemente pensare che lei lo abbia fatto con l’intenzione di saperle accudite, al riparo dai rischi, avviate a conoscere arti come il ricamo, il cucito, la cura della casa. Ma immagino anche, che sapesse quanto fossero arcigne e severe le suore dell’epoca. Nonna Pina raccontava che per paura delle punizioni, faceva la pipì addosso, e per la sua indole docile, cercava di non provocare l’ira delle maestre, mentre sua sorella Rosina, ribelle per natura, veniva spesso lasciata con le ginocchia sui ceci, o fuori al freddo a espiare chissà quali colpe. La vita di nonna Giuseppina, Pina come veniva chiamata dai più, si svolse fino all’età di 18 anni, entro le mura di un convento. Quando fu fuori, presto conobbe Augusto, che sarebbe diventato il suo sposo. Si amavano semplicemente e forse per ingenuità e poca esperienza della vita, poco dopo, nel 1925, lei mise al mondo la prima figlia. Il nonno avrebbe voluto sposarla al più presto, ma dovette scontrarsi con il veto di sua madre, che pur accogliendo nella sua casa la nuora e la bimba, si oppose a lungo al matrimonio, temendo che il nonno si disinteressasse della sorella vedova di guerra e con prole, oltre che di lei stessa. Dopo 3 anni nacque Addolorata Vita, mia madre, e anche questo nuovo evento non convinse la mia bisnonna a concedere il placet per il matrimonio. Il nonno, per quieto vivere e per necessità, aveva accettato quella situazione e la nonna, buona com’era, accettava e soffriva in silenzio lavando e stirando i panni di tutti e lacerandosi le ginocchia a strusciare pavimenti. La morte della bisnonna, finalmente consentì ai miei nonni di convolare a nozze. E a dispetto delle regole del tempo, che volevano che una sposa non illibata dovesse maritarsi all’alba e magari entrare in Chiesa dalla sagrestia, i miei teneri nonni raggiunsero la chiesa accompagnati dalle 2 piccole figlie e, trovando un picchetto d’onore schierato davanti al portale, pensarono con grande semplicità di entrare passando di là. Quindi Augusto e Pina ebbero l’onore delle spade incrociate e il monito del sacerdote che li rimproverò per la presunta volontaria bravata.
La nonna era una creatura speciale, volteggiava con leggerezza e col sorriso sulla bocca, dentro una pletora di guai e di preoccupazioni. Di povertà dignitosa e di grande generosità, era amata e rispettata da tutti, anche dai vicini di casa che trovavano presso di lei ogni conforto ed anche l’aiuto generoso, oltre che la condivisione del poco che aveva. Ebbe ancora un’altra figlia femmina, Maria Maddalena e dopo qualche anno, il sospirato figlio maschio, Vito Antonio Francesco Maria…il numero enorme di nomi, forse, era il sintomo di quanto fossero state desiderate due “presunte” braccia che aiutassero nonno Augusto nei lavori di campagna. Nel 1941 nacque Silvana, zia, quasi mamma per me, e poi, nonna Pina nel 1945 riuscì a partorire l’ultimo figlio, Bruno, un mese dopo essere diventata nonna… Quando la gente le chiedeva come facesse a portare avanti la famiglia, dibattendosi in tutte quelle difficoltà, lei rispondeva sorridendo, nicchiando, dicendo semplicemente che cresceva i figli amandoli.
Mia madre crebbe in un ambiente semplice e molto povero, dove la ricchezza era la dignità di un vestitino pulito e ben stirato, il profumo di biancheria lavata con la cenere e profumata con spigo di lavanda, una casa umile, ma linda e ospitale, l’amore semplice della mamma e del papà, persone buone al punto da farsi derubare di diritti sacrosanti, di proprietà, di autonomia e di opportunità di vivere nell’agio che era proprio della famiglia di mio nonno. Lui era analfabeta e i suoi fratelli oltre a saper leggere e scrivere, sapevano bene l’arte dell’inganno. Mamma e la sua sorella maggiore, quando non andavano in campagna col papà, ad eseguire semplici lavori, lo aspettavano sui gradini di casa, tornare dai campi con il “travino”, sempre in attesa di un piccolo regalo che, puntuale arrivava, accompagnato dal largo sorriso genuino che apriva il cuore. Il loro papà, tornando, non faceva mancare la piccola lucertolina serbata nella “coppola” o un frutto o magari solo un sorriso triste per il magro raccolto, scarso anche per la sola cena. Augusto, aveva un nome altisonante ma sentiva su di sé il peso di tanta sfortuna, al punto da ripetere sovente “se decidessi di fare cappellini, i bambini nascerebbero senza testa”, e fu così, tanto vero, che ricevute le terre dall’Ente di riforma fondiaria, impegnò quel nulla che aveva e chiese un prestito ai fratelli per seminare e sperare in un buon raccolto che lo sollevasse dai tormenti. Lavorò quel campo con tutto l’ardore di cui era capace e i meloni che aveva piantato crescevano splendidi e rigogliosi. Arrivò il tempo del raccolto e il nonno ebbe la più amara delle sorprese. Quei meloni meravigliosi… erano salati. La sorte lo aveva beffato ancora una volta, quel terreno era attraversato da una falda di acqua marina. Tornò a casa disperato.
Ricordo mia madre, già anziana, che piangeva ancora al ricordo di questo episodio in cui dovette vedere quel padre spezzato dal dolore, piangente e definitivamente nel giogo dei fratelli.
La vecchiaia, semplice e colma di amore, li avrebbe gratificati con una vita serena, 6 figli con belle famiglie e ben 27 nipoti, ancora oggi innamorati di loro. Forse per questi dispiaceri o forse perché la vita aveva deciso così, nonna Pina ci lasciò, attoniti, nel settembre del 1979, stroncata da un infarto a soli 74 anni, con una smorfia sul viso che… sembrava un sorriso. Questo evento fu molto triste per tutti noi, la nonna che fino al giorno prima aveva lucidato le sue mele rosse e stirato le camicie del figlio con la precisione di una fata, che dispensava i suoi sorrisi sinceri e con le sue poche parole era eloquente più di un fine oratore, ci aveva lasciati in un giorno di festa, quello in cui si doveva celebrare il matrimonio del suo ultimo figlio.
E mentre in periferia si svolgeva la semplice vita delle nonne materne, in un grande stabilimento vinicolo viveva un’altra donna speciale, nonna Filomena. Nata nel 1901, era un generale di ferro, a fronte di un marito molto impegnato e anche un po’ distratto dalla mondanità, era stata capace di essere una degna padrona dello stabilimento ed una capace e autorevole madre di cinque figli maschi. Durante la vendemmia, sapeva tenere a bada frotte di operai di estrazione davvero misera, che soggiornavano, per il tempo necessario, nelle cantine. Effettuavano i lavori di raccolta dell’uva nelle piantagioni e poi nello stabilimento per la pestatura e altre lavorazioni necessarie a rendere il loro prodotto di eccellente qualità. I cinque bambini crescevano vivaci e di robusta costituzione, secondo la nonna, grazie ai bagni che lei soleva impartire, calandoli nel mosto ancora tiepido di anno in anno. Tra storia e leggenda, crebbero e divennero 5 uomini che seppero dare grandi soddisfazioni ai genitori.
La nonna aveva occhi verdi e capelli ribelli, era una donna pratica, moderna e infaticabile, sana e robusta, fu la persona a noi cara a lasciarci per prima, a soli settanta anni.
Era l’anno 1970, avevo quasi 10 anni e frequentavo la quarta elementare, un giorno mamma chiese a mia sorella di aiutarmi a fare un bel bagno in vasca e mentre lei mi asciugava una gamba, si accorse che avevo una piccola escrescenza. Con la tipica, sciocca, curiosità delle ragazzine, lei strizzò quella piccola bolla e presto l’asciugamani fu colmo di sangue rosso vivo. Impaurite, chiamammo la mamma che disinfettata la piccola ferita e impartita una sonora sgridata ad entrambe, archiviò l’accaduto. Qualche giorno dopo, un piccolo urto provocò un’altra copiosa fuoriuscita di sangue e tutti ci accorgemmo che in pochi giorni il volume di quella lesione era cresciuto un bel po’. Su sapiente consiglio del medico, fui presto ricoverata in ospedale e ci restai per più di quindici giorni, spesso in compagnia di nonna Filomena.
Un pomeriggio entrò nella mia stanza il chirurgo, accompagnato da due uomini in camice bianco uno dei quali munito di grossi baffi bianchi e aspetto piuttosto arcigno. Mi chiesero di parlare con i miei genitori che furono invitati a venire in ospedale al più presto. Nel frattempo li sentivo parlottare con aria perplessa e, furbetta com’ero, riuscii a carpire alcune parole che mi spaventarono davvero tanto. Le prospettive non erano delle migliori, l’esame istologico aveva dato un esito preoccupante. Si trattava di un melanoma giovanile, che già in sede operatoria si era presentato più radicato del previsto, tanto da aver richiesto un profondo raschiamento dei tessuti quasi fino alla tibia.
E’ inutile dire che, pur facendolo con grande circospezione, tutti parlavano in modo preoccupato, la mamma piangeva, lo vedevo dagli occhi arrossati anche se camuffati dal sorriso. Nel pomeriggio la mamma e la nonna Filomena non lasciavano più l’ospedale. Era settembre inoltrato quando fui dimessa. Dopo 5 anni fui considerata fuori pericolo.
Arrivò il mese di dicembre ed il giorno 13, compleanno di mia sorella, di solito la famiglia si riuniva per allestire l’albero di Natale e festeggiare il compleanno. Quella sera nonna Filomena fu infaticabile nel preparare ogni sorta di leccornie, insieme alla mamma e alle zie. Tutti eravamo felici per i 20 anni della nostra maestrina e per la gioia di vedere tutta la famiglia riunita e gli amici allegri e vocianti.
Qualche giorno dopo, la nonna restò a letto per una lieve indisposizione, aveva un po’ di febbre, sentiva stanchezza. Molto presto, sembrò davvero peggiorare e prima di Natale fu ricoverata in ospedale, in condizioni che si presentavano già abbastanza serie. La nonna era una donna sana e forte e questa situazione improvvisa meravigliò tutti. I valori ematici erano in subbuglio e lei, dopo qualche giorno iniziò a rifiutare il cibo, si chiuse in mutismo, fatta eccezione per qualche strano delirio. Non ci fu mai una diagnosi ben precisa, e il 21 gennaio 1971, a soli 70 anni, la nonna chiuse gli occhi per sempre con una lacrima cristallizzata sulla gota smagrita.
Il tempo passò, con le sue vicende. Avevo circa trent’anni, quando iniziai ad accusare uno strano profondo dolore, proprio in corrispondenza di quella cicatrice sulla gamba, feci qualche controllo e non venne rilevato alcun problema, rassicurata, ne parlai con mia madre e vidi che i suoi occhi si riempirono di lacrime e nella commozione volle svelarmi un segreto che aveva nel cuore. Mi disse che un pomeriggio, quando io ero in ospedale per l’intervento, nonna Filomena si allontanò da sola e quando fece ritorno, abbracciò mia madre dicendole, <>.
Io rabbrividii, credere o non credere, non era il quesito che mi ponevo. Con Dio non si mercanteggia, si chiede umilmente, ma… mia nonna era una persona sana e quel 21 gennaio se ne andò senza un perché.
Giovanna Tramonte