Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Nonna Lille si chiamava Iris.
Suo padre che di cognome faceva Mascagni ed era ebanista a Palazzo Vecchio a Firenze, voleva ricordare o vantare o forse millantare la sua diretta discendenza dal compositore, nel 1910 le diede il nome di un’opera dell’omonimo.
E la vita di quella bambina fu spesso degna di un copione da operetta.
Orfana in tenerissima età, cresciuta per un po’ da una matrigna beona e poi mandata a servizio a Firenze subito dopo la terza elementare. Sapeva appena leggere e scrivere ma conosceva decine di arie di opere a memoria e le cantava sottovoce.
Rimase incinta non ancora maggiorenne e a 19 anni con una bimba appena nata lasciò Firenze per seguire a Roma il suo amore: mio nonno Amerigo. Furono accolti in casa della mamma di lui: Giuseppina, donna bella, forte e volitiva che aveva liquidato il marito all’inizio del secolo e aveva cresciuto da sola i due figli maschi.
Iris fu accolta come una figlia e figlia restò sempre, lei che fino ad allora non aveva saputo bene cosa significasse essere figlia.
Ebbe in dono anche un nuovo nome: divenne Lille invece di Iris e Lille è sempre rimasta per noi.
Ebbe otto bambini e crebbe anche me, la prima nipote, in una casa che odorava di pane abbrustolito, di panni stesi, di borotalco e acqua di colonia.
Quando sono nata lei aveva 53 anni; eppure, mi sembrava già anziana.
Ricordo il grembiule con le tasche che indossava in casa e le “mise” sempre accurate quando usciva: i capelli in ordine, un po’ gonfi di lacca, il rossetto e i cappottini con la spilla sul bavero o con i colli di visone, le scarpe lucidate e le calze, mai collant. Immancabile la catenina d’oro con un medaglione intarsiato che si apriva a libro: conteneva la foto di Stefano, l’ultimo figlio morto a soli 3 anni.
Usava parole misteriose, spesso storpiando il francese per descrivere le cose che indossava: il “robbemantò”, il “macramè”, la “mervelleusa”.
Quando ero piccola Giuseppina (la mia bisnonna, sua suocera) era ancora viva e come una direttrice d’orchestra era lei che batteva il tempo della vita in casa, mia nonna danzava sempre ubbidiente su quel ritmo al suono del giradischi o delle romanze che sussurrava spesso.
Parlava poco, ascoltava soprattutto.
C’è un gesto di lei che ricordo con una tale freschezza che potrei averla vista solo ieri (e invece manca da 32 anni): il suo modo di socchiudere gli occhi quando parlava al telefono.
Le prime volte pensavo dormisse… invece ascoltava, restava li concentrata, seduta sulla poltroncina accanto al mobile col telefono grigio, nel disimpegno tra cucina e corridoio.
Chiudeva gli occhi e annuiva brevemente col capo, poi, quando l’interlocutore aveva finito di parlare, apriva gli occhi, prendeva fiato e interveniva con poche parole ben scelte e scandite.
Aveva sempre chinato la testa, non era tipo da urlare o imporsi, all’ombra della suocera e spesso sopraffatta dal vociare dei figli, non entrava mai nel vivo delle discussioni, era avvezza all’ascolto e alla riflessione. Ma quando trovava uno spazio per parlare, quando le veniva chiesto un parere, tirava fuori una saggezza pacata e scarna, era sempre acuta, mai banale.
Ai tempi dell’università ero tornata a vivere da lei come quando ero piccola; in un periodo per me molto confuso ogni volta che chiamavo per dire che avrei tardato, che non sarei tornata a cena, la sentivo sospirare appena e la immaginavo concentrata, con gli occhi azzurri chiarissimi socchiusi. Poi la sentivo soffiare nella cornetta: “Peggio per te, avevo fatto la frittata di patate …”, lasciava la frase sospesa aspettando una mia risposta, sorniona. Ma non diceva una parola di più. Aveva fiuto, non so come facesse: le frittate di patate si materializzavano solo quando veramente ce n’era bisogno. E io spesso cedevo a quel cibo che amavo tanto quanto amavo lei che aveva trovato un modo semplice per tenermi lontana dai guai quando serviva. Nella frittata di patate non ci sono le uova, è un cibo semplicissimo fatto di sole patate lesse, tanta cipolla e olio abbondante. È stata una fortuna per me e per lei che non amassi i tagliolini agli scampi o il vitello tonnato: uscire di sera negli anni ‘80 per procurarsi gli ingredienti e poi tornare per impiattare la cena nel tempo di 10 fermate di metropolitana sarebbe stata un’operazione un tantino più complicata.
Nella foto che ho scelto nonna Lille troneggia col suo grembiule e si appoggia alla scopa come un vescovo al pastorale, ha qualcosa di regale e di quieto. È l’immagine di lei che amo di più; sullo sfondo c sono altre donne, mi sembra quasi di sentire quel rumore di stoviglie tipico dei pranzi di famiglia, quel sottofondo di voci e coperchi. Lei sorride al fotografo (probabilmente il marito), salda e sicura di sé. Per una volta mi sembra che la sua figura riacquisti centralità, che sia lei la protagonista, la vedo in un ruolo che aveva dentro ma che non ha mai occupato per timore, per timidezza.