Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
"Cieeennciaio. Peeelllaio. Chi ha cenci e pelli da vendere?":
"Mamma, mamma, eccolo, dai, corri, sennò va via, sbrigati!".
Un uomo arrancava su una bicicletta, trainando un carretto carico di panni e sacchi di pelli di coniglio.
Andava urlando per richiamare le massaie che si liberavano degli abiti messi e rimessi, rattoppati e rigirati, rammendati e ricuciti.
Dalla parete a sud degli stanzini, i loghi, posti lontano da casa, vicini all'orto, adibiti a latrine "a tonfo", senza sedile e senza acqua, si staccavano quel giorno le pelli di coniglio che, dopo la scuoiatura dell'animale il sabato per l'arrosto della domenica, vi erano state, ancora calde e con quell'umore attaccaticcio sul rovescio, sbattute a forza affinché vi rimanessero ben appiccicate, a far da richiamo per migliaia di mosche.
Le molli e morbide pelli sembravano stoccafissi pelosi quando lasciavano il muro, ed il cenciaio le contava pagandole a numero, ammazzettandole a dieci a dieci ed infischiandosene delle larve delle mosche che erano nate nelle pieghe e che gli cascavano addosso.
I cenci invece venivano pesati alla meglio con una grande bilancia rugginosa e pagati un tanto al chilo, con pochi spiccioli, che servivano per il gelato dei bambini. Ecco spiegato il grande interesse che quel sudicio ometto suscitava nei ragazzi.
Si mangiava ciccia la domenica, a volte anche il lunedì, si pescavano le lasche con i "bai di sego" nati sulle pelli, ci si divertiva al Serchio e si rimediava anche un gelatino da trenta, con la massima misura della macchinetta del gelataio che passava di pomeriggio col suo carrettino lucido e cromato cantilenando:
"Piangete bambini, che mamma ve lo compra! Geelataiooo".
La pubblicità è sempre stata l'anima del commercio e le scritte al neon dei nostri moderni negozi avevano un rumoroso surrogato nella forza delle tonsille di quegli ambulanti, mentre la bottega era la solita, indispensabile e insostituibile bicicletta.
Per l'arrotino il luogo di lavoro ed il mezzo di trasporto era una bici elaborata. Fermatosi alle richieste delle massaie che non sbucciavano più tanto bene le patate e non affettavano decisamente i pomodori ed il pane, l'arrotino metteva la sua bici-mola su un grande cavalletto, largo doppio e sicuro, dopo aver armeggiato alla ruota posteriore con pulegge e cinghie.
Girava la sella e, pedalando come se andasse all'indietro, azionava la sua mola tenuta sempre bagnata da una gocciolina d'acqua che usciva da una cannellina di rame, sporgente da una fiaschetta rovesciata, tenuta in alto da un bastoncino ricurvo.
"Arrrrotiinoo!"
Gia quel suono onomatopeico faceva rizzare i peli delle braccia e salire un flutto di saliva in bocca, pensando allo stridore della lama sulla ruota di smeriglio non ancora ben avviata e bagnata, mentre le massaie si facevano sull'uscio con i fern da taglio che non tagliavano
L'uomo arrotava le forbici, i coltelli, le cui lame diventavano sempre piu strette, la mannaia del macellaio, it coltellino che il bimbo aveva avuto in regalo a Natale e che ora aveva perso it filo tagliando quello di ferro e anche qualche sasso, il bel coltello geloso da pesca del babbo che, fino a quel momento, era stato arrotato personalmente con la pietra "a sputo", ma che "ora non si trova pia in tutto quel casino che c'e in baracca o avra fatto la fine delle pinze e del metro".
Riscuoteva e, raccomandandosi alle donne di stare attente che "ora tagliano", smontava it baldacchino e, rimontato in sella, questa volta dalla parte giusta, pedalava allontanandosi e ripetendo la solita cantilena:
"Arrrotiinoo!"
Le massaie dovevano avere naso per gli affari, occhio per la casa ed orecchio per chi offriva la propria opera andando in giro per le strade dei paesi.
"Ooombrrelllaaio, ssprraaangaio!"
Questa volta era un grido che sapeva di forestiero, perche dalle nostre parti non vi erano mai stati maestri in quel genere di lavoro e, conseguentemente, non vi erano neanche discepoli pronti a far rivivere e sopravvivere quel meridionale ed antico mestiere.
Noi ragazzi guardavamo con stupore la maestria di quelle mani che foravano le pentole di coccio, le conche, ai lati della rottura, per farvi passare fili di ferro, le "spranghette", dopo aver preparato misture per i mastici che sembravano pozioni magiche, con polverine di tanti colori e dai pungenti odori, per riparare ombrelli che sembravano perduti per sempre e che riprendevano it loro primitivo ufficio, con quasi nostro dispetto perche avevamo intravisto nelle stecche di bambù dimesse un ottimo materiale per fare archi e frecce.
Lo stagnaio aveva appena finito di fare tutti i fori nei pezzi della conca rotta, quando cominciò a piovere. Disse a Cefisio, che gli aveva commissionato il lavoro, che gli dispiaceva, ma non poteva più lavorare, perchè quel tempo umido avrebbe nociuto alla presa del mastice e che doveva quindi rimandare.
La Ada si arrabbiò, aveva da una settimana tutti i panni in giro per la casa, non poteva fare il bucato con la rannata senza la conca e non sentì ragioni. Spedì lo stagnaio nel mandriolo, al coperto, tanto il maiale erano due mesi che non c'era più, da quando si era rotto una gamba scivolando sul cemento dello stanzino e si era dovuto macellare che non era ancora sessanta chili, meno un prosciutto.
Nessuno di loro aveva letto Pirandello, ma il finale fu lo stesso, anche se con una leggera variazione.
"Aaacqueettaiooo!"
Fanfulla pedalava estate ed inverno sulle strade polverose dei paesi della Val di Serchio, tirandosi dietro un carretto a due ruote pieno di bottiglie mezze piene e mezze vuote.
Vendeva la varechina, "l'acquetta", buona per lavare e levare, da padelle e piatti dove erano state sbattute per frittate e francesine, il lezzo delle uova troppo usate per le cene di quei tempi.
A volte, colorate non ho mai capito come e da cosa, portava bottiglie di acquetta rosse, celesti, verdi, bianche, gialle e tutti noi ragazzi chiedevamo alla mamma che comprasse quella con il colore più simpatico, con la speranza forse che i panni prendessero quella tinta desiderata.
Fanfulla era come la merce che vendeva, pulito e profumato, gentile e garbato; il cenciaio rifletteva le sue pelli e gli stracci, sudicio, puzzolente e rozzo; l'arrotino, sempre schizzato e macchiato dalla limatura dei ferri, parlava che sembrava arrotasse anche con i denti; l'ombrellaio, muto come si fosse immasticiato la lingua, con una testina e due spalline strette e un culo largo che sembrava un ombrello chiuso appoggiato per il manico; tutti si trasferivano, con la persona o con gli atteggiamenti, sul mestiere che esercitavano, ma nessuno batteva il carbonaio.
Era l'unico che non pedalasse, andava in giro con un barroccino carico di legnetti neri, tirato da un cavallo che, quando cacava, faceva antracite e non merda, naturalmente con i capelli mori (naturalmente nel senso di ovviamente), naturalmente chi lo poteva più sapere ormai?
Il vestito era nero (originale?), scarpe nere, camicia nera, mani, pelle, tutto nero e con un bianco negli occhi che ti metteva paura. Quando veniva chiamato scendeva con un salto dal barroccio e, arrivando a terra, faceva una nuvoletta nera. Vendeva il carbone a balle, a secchi, a mucchietti ed i soldi che guadagnava credo che li risparmiasse tutti, perchè in giro per il paese, di resto alla bottega, non ho mai visto lire tinte di nero.
Per anni ho sognato di andare una mattina a casa sua per vedere il colore delle lenzuola.
"Carrrbonaaaio!"