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di Mario Lavia (a cura di Bruno Baglini, red VdS)
Il “fantasma shakespeariano”, Matteotti e la chiave riformista

20/5/2024 - 20:05

Il “fantasma shakespeariano”, Matteotti e la chiave riformista

Nel libro di Antonio Funiciello vengono ripresi il pensiero e l’azione politica del leader dei socialisti riformisti che avrebbero potuto bloccare il fascismo
Giacomo Matteotti oggi è un fantasma. Della sua lezione politica non resta nulla. Il suo nome vibra certamente nel cuore di tutti gli antifascisti per il suo martirio, ed è per questo che nel centenario del suo assassinio è stato molto ricordato. Ma politicamente Matteotti è «il fantasma shakespeariano sempre più sbiadito, si muove inosservato dietro le quinte dell’attualità: non impressiona e non spaventa più nessuno».
È questa la conclusione del libro di Antonio Funiciello “Tempesta – La vita (e non la morte) di Giacomo Matteotti” (Rizzoli), dove il titolo già spiega il senso del volume: lo scandaglio del pensiero e dell’azione politica del leader dei socialisti riformisti. E rievocare “Tempesta”, suo soprannome, da vivo e non da morto. E infatti questo è un libro politico più che storico – ma quant’è utile mettere ordine nelle complicate vicissitudini dei socialisti!

Un libro che sostiene una tesi forte: il riformismo di Matteotti (e di Filippo Turati e dei vari Treves, Modigliani, Caldara, Prampolini) è l’unico socialismo che abbia un senso, una credibilità, una necessità addirittura. Massacrato politicamente dal massimalismo e poi dal comunismo ai suoi albori, prima di essere fisicamente eliminato da Mussolini, il riformismo impaziente di Matteotti avrebbe potuto avere le chiavi per costruire un’alleanza democratica per bloccare il fascismo se solo Giolitti, Sturzo, Amendola e appunto Matteotti avessero saputo unirsi prima che fosse troppo tardi. Invece i socialisti riformisti non riuscirono mai, malgrado il successo personale di Matteotti e il carisma di Turati, ad essere egemoni nella classe operaia e tra i lavoratori: è una specie di maledizione, questa del minoritarismo dei riformisti, destinata a colpirli anche nei decenni successivi, diremmo fino ai giorni nostri. Ma a questo punto bisogna mettere bene a fuoco cosa sia questo riformismo, parola che è stata ed è adoperata con grande superficialità da tutte le parti.

«Il suo riformismo – spiega Funiciello – risponde e si flette alle necessità del governo locale e della lotta sindacale bracciantile: obiettivi che richiedono, anzi pretendono, concretezza (…) Tutto ciò si lega a un’idea machiavelliana di politica, dunque profondamente realista, alla ricerca continua di un compromesso accettabile tra il realismo del metodo e le esigenze della lotta di classe, con la bussola della prospettiva socialista sott’occhio, bussola che Matteotti non perse mai di vista». Abbiamo qui, in poche parole, alcuni elementi distintivi del riformismo socialista. Innanzitutto la conoscenza dei problemi reali. E in questo Matteotti fu il più capace di tutti, lo si vide alla Camera con la ripetuta e puntigliosa esposizione della situazione del suo Polesine, fu «un segugio alla ricerca di ogni possibile dato empirico» come premessa indispensabile per la costruzione di soluzioni e di alleanze: è lui che inchioda i governi liberali, cifre alla mano, alle loro responsabilità (una volta fece perdere le staffe a Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione). Secondo, la ricerca di alleanze, di collaborazioni che rendessero vincenti le proposte riformiste.

Terzo, e forse più importante, il rifiuto della violenza e la piena accettazione delle regole democratiche e liberali. Tutto il contrario delle pratiche dei massimalisti che combatterono fino all’espulsione, e dei comunisti, che lo odiavano. Gramsci lo chiamò «pellegrino del nulla» e mai lo citò nelle migliaia di pagine, peraltro ricchissime di cultura e di storia, dei Quaderni dal carcere. Questa avversione per il socialismo riformista rimase anche dopo la guerra, in Togliatti e in generale nel Pci che ricordava il martire Matteotti ma scomunicava il politico Matteotti: “socialdemocratico” fu un insulto ancora fino agli anni Sessanta se non oltre. Stante l’egemonia del Pci sulla sinistra italiana e le permanenti incertezze teoriche di Pietro Nenni, le idee di Giacomo Matteotti non hanno trovato veri eredi, al più hanno ripreso una loro vita con il migliorismo di Giorgio Napolitano (al quale Funiciello fu molto legato). Ma prima o poi non è impossibile, per quanto difficile, che tornino alla luce, nell’epoca buia che stiamo vivendo.


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