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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
di Stefano Ceccanti (a cura di Bruno Baglini, red VdS)
Premierato sì, ma non così

21/5/2024 - 9:08

STEFANO CECCANTI  COSTITUZIONE E CARTE DEI DIRITTI FONDAMENTALI  


Premierato sì, ma non così


Questo contributo inaugura la discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato.
Premierato sì, ma non così
di Stefano Ceccanti 
 
Il tema del premierato fu sviluppato per la prima volta in modo compiuto da Maurice Duverger (che poi fu eletto dal Pci in Italia al parlamento europeo nel 1989) e dalla sinistra democratica e socialista francese, riunita nel Club Jean Moulin, attraverso il libro “Lo Stato e il cittadino”, negli anni che vanno dal 1956 al 1961.
L’idea era relativamente semplice. Il parlamentarismo della Quarta Repubblica francese, in presenza di partiti deboli e indisciplinati, non si adattava alle necessità di una grande democrazia, ma era preferibile pensare a una forma parlamentare rinnovata anziché a una soluzione di tipo presidenziale (che poi prevalse nella forma originale del semi-presidenzialismo voluta da de Gaulle). 
Le grandi democrazie parlamentari, riflettevano Duverger e il Club Jean Moulin, si basano su una regolarità che si è affermata a partire dal Regno Unito: la legittimazione diretta in sede elettorale di una maggioranza e del suo premier, che poi viene formalizzata in Parlamento. 
Dentro la categoria di forma parlamentare, in cui il Governo è emanazione della maggioranza parlamentare ed è bilanciato da vari gruppi di opposizione (nei Paesi anglosassoni si distingue tra il gruppo più grande, l’Opposizione, dalle ulteriori minoranze), va quindi collocata una sotto-tipologia neo-parlamentare in cui il rapporto fiduciario nasce dal voto, distinta dall’altra quella vetero-parlamentare in cui, come nella Quarta Repubblica, esso nasceva solo da combinazioni parlamentari. Anche le limitate eccezioni come quelle inglesi del cambio di Premier nel Regno Unito in corso di legislatura a ben vedere sono apparenti: si cambia a favore di un esponente in grado di garantire un rapporto migliore col corpo elettorale per le elezioni future. È sempre il legame fiduciario col corpo elettorale che viene alla luce.
A questo esito neo-parlamentare, che valorizza il ruolo dell’elettore, si può pervenire in vari modi, e molto dipende del sistema dei partiti. L’importante è adottare regole che in un contesto specifico siano in grado di produrre quell’esito, non mutuarle pedissequamente. È decisivo saper leggere concretamente il contesto in cui si opera.
Se il sistema è molto disciplinato, con pochi partiti, organizzati in prevedibili coalizioni e sulla base del rispetto della convenzione per cui si riconosce al primo partito dentro la coalizione di vedere scelto come Premier la persona che ha indicato prima del voto, l’esito neo-parlamentare si potrebbe anche avere anche con sistemi proporzionali. SI potrebbe poi puntellare, dopo il voto, tale esito con norme costituzionali relativamente flessibili.

È il caso della Germania: grazie alla soglia di esclusione del 5 per cento, capace di ridurre il numero dei partiti presenti in Parlamento e, successivamente alle elezioni, soprattutto grazie all’articolo 68 della Costituzione.

Esso consente al Cancelliere, con alcuni limiti, di prospettare uno scioglimento anticipato in caso di rigetto della fiducia. Un articolo ingiustamente misconosciuto, mentre è conosciuta e decisamente sopravvalutata la mozione costruttiva di cui all’articolo precedente, scarsamente efficace negli ordinamenti in cui tradizionalmente le crisi sono extra-parlamentari, come segnalano gli studiosi Lauvaux e Le Divellec. 
Se invece il sistema dei partiti è meno disciplinato, si dovrà ricorrere in sede elettorale a sistemi più selettivi, che puntino a costruire una maggioranza chiara già in sede di voto, sistemi che aggreghino più che sbarrare, quindi con collegi uninominali o con premi, come già aveva avvisato Roberto Ruffilli negli anni ’80. In sede costituzionale si dovrà optare per regole più stringenti, in particolare di regolamentazione del potere di scioglimento, in modo che esso funzioni efficacemente come deterrente per le minoranze interne alla maggioranza. Detto in altri termini: in un contesto come il nostro le regole elettorali tedesche e la sola sfiducia costruttiva (sperimentata con esiti nulli nei Comuni italiani tra 1990 e 1993) non ci farebbe spostare dal vetero al neo-parlamentarismo. 
Duverger e il Club Jean Moulin, a partire quindi da questa ispirazione, proposero per la Francia un sistema concreto di voto con due schede: una per il premier, l’altra per i deputati, con lo stesso identico metodo, uninominale a doppio turno per designare un vincitore insieme alla sua maggioranza e la clausola del simul stabunt simul cadent per mantenerlo durante la legislatura. Ogni crisi, sia originata per dimissioni-scioglimento del Premier, sia per mozione di sfiducia della Camera (sfiducia distruttiva) avrebbe ricondotto le dinamiche politiche all’elettore-arbitro. 
I due livelli vanno distinti: al sistema elettorale si può chiedere, con criteri di ragionevolezza, di favorire al massimo grado un esito predeterminato, ma la stabilità successiva dipende dalle norme costituzionali.
Duverger criticava il sistema semi-presidenziale adottato in Francia, , pur essendo più noto a livello accademico soprattutto per il suo contributo dottrinale a tale sistema, perché non riteneva logico che il vertice dell’esecutivo venisse eletto (lui solo) per un mandato più lungo, rafforzando l’elemento personale, e solo in seguito si formasse una maggioranza con le elezioni legislative sfalsate nel tempo. Per di più riteneva il sistema meno equilibrato di quello neo-parlamentare sull’uso dello scioglimento.

Il Premier che scioglie mette in causa sé stesso, il Presidente che scioglie invece resta in carica. Tuttavia rispetto al vetero-parlamentarismo della Quarta Repubblica lo riteneva pur sempre un male minore e per questo insieme al Club Jean Moulin votò Si al referendum del 1962 sull’elezione diretta, chiedendo però che in futuro anche il mandato del Presidente dovesse essere di cinque anni e non di sette e che si votasse lo stesso giorno per Parlamento e Presidente.

A questo sistema si è avvicinata la riforma costituzionale francese del 2000 che ha equiparato i mandati anche se li ha messi in stretta sequenza e non in contestualità. Il punto è comunque che lo studioso del semi-presidenzialismo Duverger ha sempre ritenuto preferibile come prima opzione quella che Augusto Barbera definì un’alternativa neo-parlamentare al presidenzialismo.
Questa impostazione di Duverger, risultata perdente in Francia, ha anzitutto ispirato in Italia diversi studiosi: si vedano le conclusioni della celebre voce di Elia sulle forme di governo del 1970, il noto intervento di Mortati de 1973 sulla rivista “Gli Stati”, i lavori di Serio Galeotti e quelli appunto di Augusto Barbera. Quindi ha ispirato anche concrete riforme: la legge Ciaffi del 1993 sull’elezione diretta del sindaco che, anche grazie al lavoro parlamentare di Barbera e alla presenza costante di Duverger nel nostro Paese come parlamentare europeo per il Pci/Pds fino al 1994, ha ripreso esattamente la formulazione del 1956 sulla forma di governo (simul simul), mentre si è discostata dalla formula elettorale adottando il premio di maggioranza anziché i collegi uninominali. Quella soluzione fu ripresa anche per le Regioni nel doppio passaggio 1995 (riforma elettorale) e 1999 (riforma costituzionale, dopo che quella elettorale da sola aveva rivelato di essere impotente per il prosieguo della legislatura). 
Essa fu anche malamente ripresa in Israele dove fu curvata in modo illogico: un premier eletto direttamente doveva galleggiare su un parlamento eletto con la proporzionale pura.

Un modello destinato inevitabilmente al fallimento, ma appunto perché deviante rispetto all’impostazione originaria, non perché la rispecchiasse. Esattamente come, a parti invertite, de Gaulle immaginò un sistema nuovo (elezione del Presidente con maggioritario) a differenza di quello rivelatosi sbagliato a Weimar (elezione del Presidente con il proporzionale).


La Tesi 1 della coalizione dell’Ulivo e poi l’articolato del senatore Cesare Salvi alla Bicamerale per l’intero centrosinistra (simile ad un articolato di Cossutta e Bertinotti per Rifondazione Comunista) ripresero quel modello con alcuni adattamenti. Un sistema elettorale basato sui collegi uninominali (che agevola anche se non garantisce una maggioranza, ma che valorizza di più il voto al singolo parlamentare, che determina per così dire un effetto maggioritario più naturale rispetto al premio) e il riconoscimento del potere di scioglimento, ma con una flessibilità maggiore rispetto al simul simul praticato per comuni e regioni, riprendendolo dal modello spagnolo. Infatti in Spagna il Premier, ove abbia problemi di coalizione, ma sia ancora popolare nel Paese, può proporre al Re in modo vincolante elezioni anticipate per ricompattarla o andare effettivamente al voto (come ha fatto Sanchez pochi mesi fa), ma se invece si è logorato nel suo rapporto con l’opinione pubblica può anche vedersi sfiduciato con mozione costruttiva, e sua conseguente sostituzione al vertice dell’esecutivo. Un modello simile a quello evocato da Mortati nel 1973, presentato dal senatore dc Aldo Di Matteo nel 1992 in Parlamento congiuntamente a una proposta di iniziativa popolare delle Acli.

Il testo Cossutta-Bertinotti, ispirandosi all’articolo 68 della Legge Fondamentale tedesca, lasciava invece alcuni margini al Capo dello Stato e alla Camera rispetto alla proposta di scioglimento del Cancelliere. Negli anni successivi, nel 2001, le proposte Tonini-Morando (Pd) e Malan (allora Fi, oggi Fdi) riprendevano il modello svedese in cui il Governo, anche sfiduciato può decidere se dimettersi o decidere per elezioni anticipate. Sono variazioni, pur importanti sul tema dello scioglimento come deterrente per Governi di coalizione superando la situazione attuale senza giungere alle rigidità del simul..simul.  
Non si può quindi sostenere che l’ispirazione del Premierato coincida col modello illogico di Israele, che essa sia strutturalmente di destra quando nasce obiettivamente a sinistra, da Duverger a Salvi, e che non abbia dietro di sé riflessioni consolidate.
Tuttavia questo non può portare a considerare accettabile qualsiasi versione dello stesso, qualsiasi tentativo di partire dal Premierato per arrivare a qualsiasi soluzione tecnica. Anzitutto esso nasce in una condizione di sistema di partiti frammentato e il modo naturale di semplificarlo, spiegava sempre Duverger, è un sistema a doppio turno. Ce ne possono essere vari, basati sui voti o sui seggi, tuttavia c’è un’esigenza di legittimazione di un Premier e della sua maggioranza che non può ritenersi soddisfatta da una minoranza ristretta del corpo elettorale. Il secondo turno eventuale è una polizza di assicurazione contro forze estremiste che potrebbero essere in grado, col proprio elettorato militante, di arrivare in testa in un primo turno o di essere comunque determinanti nella coalizione più votata, ma non di vincere al secondo quando gli elettori possono manifestare le proprie seconde scelte.

Basti vedere quanto accade in alcuni turni elettorali francesi. Il secondo turno ha un indubbio effetto deradicalizzante.
Il testo proposto dal Governo è elusivo su questo punto decisivo: non ci si spiega in quanti turni debba essere eletto il premier e come si formi la relativa maggioranza, anche in presenza di una giurisprudenza costituzionale che, in caso di adozione di premi di maggioranza innestati sulla proporzionale, accetta solo uno scostamento ragionevolmente limitato tra voti e seggi sulla base di una soglia significativa per accedere al premio. Il testo all’esame del Senato ci parla di elezione diretta e di maggioranza garantita in seggi, ma non ci spiega se il turno sia unico o doppio (come fanno in Europa con la previsione del ballottaggio a due le Costituzioni in materia di elezioni dirette), se si debba prevedere una soglia e cosa accada se essa non sia raggiunta. Inoltre, a differenza dei modelli sin qui proposti in modo più puntuale (ad esempio quelli Salvi e Cossutta-Bertinotti) che prevedevano un unico voto per i deputati in collegi con indicazione del relativo Premier, qui i voti restano almeno due (Camera e Senato distinti), ma forse diventano anche tre (non si capisce, dice lo studio del Servizio Studi della Camera) se si voti separatamente per il Premier oppure no.

Per di più: cosa fare in caso di risultati divaricanti, specie tenendo conto che il voto per gli italiani all’estero sulle schede di Camera e Senato pesa per il due per cento (è loro pre-assegnato un limitato diritto di tribuna di 8 deputati e 4 senatori), mentre potrebbero pesare il dieci per cento su quella del Premier, essendo gli italiani all’estero cinque milioni? Il testo non lo dice.  
Accanto a questi problemi relativi ai pesi, ci sono quelli dei contrappesi da aggiornare. Prendo l’aspetto più delicato, quello del Capo dello Stato. Non mi riferisco tanto alla questione dei suoi poteri che spesso sono citati in modo non convincente; l’adozione del Premierato ha senso se l’insieme delle norme porta a un ruolo più efficace del corpo elettorale, e quindi non può non limitare, sia pur senza annullarlo, il ruolo del Presidente sulla nomina del Governo e a responsabilizzare di più il Premier sullo scioglimento. Perché il Presidente sia davvero un secondo motore, che agisce in caso di crisi, e non diventi il primo a causa della debolezza del sistema dei partiti, occorre appunto valorizzare il ruolo del corpo elettorale. La questione dei poteri è stata nella sostanza risolta da un emendamento del senatore Pera che distingue quelli propri esentando i relativi atti dalla controfirma del Governo, ma resta invece intatto quello della sua elezione in Camere elette, sovrarappresentando lo schieramento vincente.

Perché non ampliare la base elettorale del collegio aggiungendo i parlamentari europei eletti in Italia e un numero di sindaci uguale a quello dei consiglieri regionali e, al tempo stesso, elevare il quorum al 55 per cento in modo da rendere indisponibile la carica a una scelta della sola maggioranza che potrebbe incidere anche sull’effettivo esercizio dei poteri? 


Sono le riflessioni che abbiamo maturato con un gruppo traversale di associazioni (Libertà Eguale, Io cambio, Magna Carta, Riformismo e Libertà) e che sono in sostanza riassumibili con lo slogan “Premierato sì, ma non così’”. È su questo confronto di merito che occorre indirizzarsi puntualmente. Se si riconosce che l’impostazione di fondo dovrebbe essere quella originaria di Diverger e del Club Jean Moulin, difficile poi non trovare accomodamenti ragionevoli sui punti problematici evidenziati.
Il tema del premierato fu sviluppato per la prima volta in modo compiuto da Maurice Duverger (che poi fu eletto dal Pci in Italia al parlamento europeo nel 1989) e dalla sinistra democratica e socialista francese, riunita nel Club Jean Moulin, attraverso il libro “Lo Stato e il cittadino”, negli anni che vanno dal 1956 al 1961.
L’idea era relativamente semplice. Il parlamentarismo della Quarta Repubblica francese, in presenza di partiti deboli e indisciplinati, non si adattava alle necessità di una grande democrazia, ma era preferibile pensare a una forma parlamentare rinnovata anziché a una soluzione di tipo presidenziale (che poi prevalse nella forma originale del semi-presidenzialismo voluta da de Gaulle). 


Le grandi democrazie parlamentari, riflettevano Duverger e il Club Jean Moulin, si basano su una regolarità che si è affermata a partire dal Regno Unito: la legittimazione diretta in sede elettorale di una maggioranza e del suo premier, che poi viene formalizzata in Parlamento. 
Dentro la categoria di forma parlamentare, in cui il Governo è emanazione della maggioranza parlamentare ed è bilanciato da vari gruppi di opposizione (nei Paesi anglosassoni si distingue tra il gruppo più grande, l’Opposizione, dalle ulteriori minoranze), va quindi collocata una sotto-tipologia neo-parlamentare in cui il rapporto fiduciario nasce dal voto, distinta dall’altra quella vetero-parlamentare in cui, come nella Quarta Repubblica, esso nasceva solo da combinazioni parlamentari. Anche le limitate eccezioni come quelle inglesi del cambio di Premier nel Regno Unito in corso di legislatura a ben vedere sono apparenti: si cambia a favore di un esponente in grado di garantire un rapporto migliore col corpo elettorale per le elezioni future. È sempre il legame fiduciario col corpo elettorale che viene alla luce.
A questo esito neo-parlamentare, che valorizza il ruolo dell’elettore, si può pervenire in vari modi, e molto dipende del sistema dei partiti. L’importante è adottare regole che in un contesto specifico siano in grado di produrre quell’esito, non mutuarle pedissequamente. È decisivo saper leggere concretamente il contesto in cui si opera.
Se il sistema è molto disciplinato, con pochi partiti, organizzati in prevedibili coalizioni e sulla base del rispetto della convenzione per cui si riconosce al primo partito dentro la coalizione di vedere scelto come Premier la persona che ha indicato prima del voto, l’esito neo-parlamentare si potrebbe anche avere anche con sistemi proporzionali. SI potrebbe poi puntellare, dopo il voto, tale esito con norme costituzionali relativamente flessibili. È il caso della Germania: grazie alla soglia di esclusione del 5 per cento, capace di ridurre il numero dei partiti presenti in Parlamento e, successivamente alle elezioni, soprattutto grazie all’articolo 68 della Costituzione. Esso consente al Cancelliere, con alcuni limiti, di prospettare uno scioglimento anticipato in caso di rigetto della fiducia. Un articolo ingiustamente misconosciuto, mentre è conosciuta e decisamente sopravvalutata la mozione costruttiva di cui all’articolo precedente, scarsamente efficace negli ordinamenti in cui tradizionalmente le crisi sono extra-parlamentari, come segnalano gli studiosi Lauvaux e Le Divellec. 


Se invece il sistema dei partiti è meno disciplinato, si dovrà ricorrere in sede elettorale a sistemi più selettivi, che puntino a costruire una maggioranza chiara già in sede di voto, sistemi che aggreghino più che sbarrare, quindi con collegi uninominali o con premi, come già aveva avvisato Roberto Ruffilli negli anni ’80. In sede costituzionale si dovrà optare per regole più stringenti, in particolare di regolamentazione del potere di scioglimento, in modo che esso funzioni efficacemente come deterrente per le minoranze interne alla maggioranza. Detto in altri termini: in un contesto come il nostro le regole elettorali tedesche e la sola sfiducia costruttiva (sperimentata con esiti nulli nei Comuni italiani tra 1990 e 1993) non ci farebbe spostare dal vetero al neo-parlamentarismo. 
Duverger e il Club Jean Moulin, a partire quindi da questa ispirazione, proposero per la Francia un sistema concreto di voto con due schede: una per il premier, l’altra per i deputati, con lo stesso identico metodo, uninominale a doppio turno per designare un vincitore insieme alla sua maggioranza e la clausola del simul stabunt simul cadent per mantenerlo durante la legislatura. Ogni crisi, sia originata per dimissioni-scioglimento del Premier, sia per mozione di sfiducia della Camera (sfiducia distruttiva) avrebbe ricondotto le dinamiche politiche all’elettore-arbitro. 
I due livelli vanno distinti: al sistema elettorale si può chiedere, con criteri di ragionevolezza, di favorire al massimo grado un esito predeterminato, ma la stabilità successiva dipende dalle norme costituzionali.
Duverger criticava il sistema semi-presidenziale adottato in Francia, , pur essendo più noto a livello accademico soprattutto per il suo contributo dottrinale a tale sistema, perché non riteneva logico che il vertice dell’esecutivo venisse eletto (lui solo) per un mandato più lungo, rafforzando l’elemento personale, e solo in seguito si formasse una maggioranza con le elezioni legislative sfalsate nel tempo. Per di più riteneva il sistema meno equilibrato di quello neo-parlamentare sull’uso dello scioglimento. Il Premier che scioglie mette in causa sé stesso, il Presidente che scioglie invece resta in carica. Tuttavia rispetto al vetero-parlamentarismo della Quarta Repubblica lo riteneva pur sempre un male minore e per questo insieme al Club Jean Moulin votò Si al referendum del 1962 sull’elezione diretta, chiedendo però che in futuro anche il mandato del Presidente dovesse essere di cinque anni e non di sette e che si votasse lo stesso giorno per Parlamento e Presidente. A questo sistema si è avvicinata la riforma costituzionale francese del 2000 che ha equiparato i mandati anche se li ha messi in stretta sequenza e non in contestualità. Il punto è comunque che lo studioso del semi-presidenzialismo Duverger ha sempre ritenuto preferibile come prima opzione quella che Augusto Barbera definì un’alternativa neo-parlamentare al presidenzialismo.


Questa impostazione di Duverger, risultata perdente in Francia, ha anzitutto ispirato in Italia diversi studiosi: si vedano le conclusioni della celebre voce di Elia sulle forme di governo del 1970, il noto intervento di Mortati de 1973 sulla rivista “Gli Stati”, i lavori di Serio Galeotti e quelli appunto di Augusto Barbera. Quindi ha ispirato anche concrete riforme: la legge Ciaffi del 1993 sull’elezione diretta del sindaco che, anche grazie al lavoro parlamentare di Barbera e alla presenza costante di Duverger nel nostro Paese come parlamentare europeo per il Pci/Pds fino al 1994, ha ripreso esattamente la formulazione del 1956 sulla forma di governo (simul simul), mentre si è discostata dalla formula elettorale adottando il premio di maggioranza anziché i collegi uninominali. Quella soluzione fu ripresa anche per le Regioni nel doppio passaggio 1995 (riforma elettorale) e 1999 (riforma costituzionale, dopo che quella elettorale da sola aveva rivelato di essere impotente per il prosieguo della legislatura). 
Essa fu anche malamente ripresa in Israele dove fu curvata in modo illogico: un premier eletto direttamente doveva galleggiare su un parlamento eletto con la proporzionale pura. Un modello destinato inevitabilmente al fallimento, ma appunto perché deviante rispetto all’impostazione originaria, non perché la rispecchiasse. Esattamente come, a parti invertite, de Gaulle immaginò un sistema nuovo (elezione del Presidente con maggioritario) a differenza di quello rivelatosi sbagliato a Weimar (elezione del Presidente con il proporzionale).


La Tesi 1 della coalizione dell’Ulivo e poi l’articolato del senatore Cesare Salvi alla Bicamerale per l’intero centrosinistra (simile ad un articolato di Cossutta e Bertinotti per Rifondazione Comunista) ripresero quel modello con alcuni adattamenti. Un sistema elettorale basato sui collegi uninominali (che agevola anche se non garantisce una maggioranza, ma che valorizza di più il voto al singolo parlamentare, che determina per così dire un effetto maggioritario più naturale rispetto al premio) e il riconoscimento del potere di scioglimento, ma con una flessibilità maggiore rispetto al simul simul praticato per comuni e regioni, riprendendolo dal modello spagnolo. Infatti in Spagna il Premier, ove abbia problemi di coalizione, ma sia ancora popolare nel Paese, può proporre al Re in modo vincolante elezioni anticipate per ricompattarla o andare effettivamente al voto (come ha fatto Sanchez pochi mesi fa), ma se invece si è logorato nel suo rapporto con l’opinione pubblica può anche vedersi sfiduciato con mozione costruttiva, e sua conseguente sostituzione al vertice dell’esecutivo. Un modello simile a quello evocato da Mortati nel 1973, presentato dal senatore dc Aldo Di Matteo nel 1992 in Parlamento congiuntamente a una proposta di iniziativa popolare delle Acli. Il testo Cossutta-Bertinotti, ispirandosi all’articolo 68 della Legge Fondamentale tedesca, lasciava invece alcuni margini al Capo dello Stato e alla Camera rispetto alla proposta di scioglimento del Cancelliere. Negli anni successivi, nel 2001, le proposte Tonini-Morando (Pd) e Malan (allora Fi, oggi Fdi) riprendevano il modello svedese in cui il Governo, anche sfiduciato può decidere se dimettersi o decidere per elezioni anticipate. Sono variazioni, pur importanti sul tema dello scioglimento come deterrente per Governi di coalizione superando la situazione attuale senza giungere alle rigidità del simul..simul. 

 
Non si può quindi sostenere che l’ispirazione del Premierato coincida col modello illogico di Israele, che essa sia strutturalmente di destra quando nasce obiettivamente a sinistra, da Duverger a Salvi, e che non abbia dietro di sé riflessioni consolidate.
Tuttavia questo non può portare a considerare accettabile qualsiasi versione dello stesso, qualsiasi tentativo di partire dal Premierato per arrivare a qualsiasi soluzione tecnica. Anzitutto esso nasce in una condizione di sistema di partiti frammentato e il modo naturale di semplificarlo, spiegava sempre Duverger, è un sistema a doppio turno. Ce ne possono essere vari, basati sui voti o sui seggi, tuttavia c’è un’esigenza di legittimazione di un Premier e della sua maggioranza che non può ritenersi soddisfatta da una minoranza ristretta del corpo elettorale. Il secondo turno eventuale è una polizza di assicurazione contro forze estremiste che potrebbero essere in grado, col proprio elettorato militante, di arrivare in testa in un primo turno o di essere comunque determinanti nella coalizione più votata, ma non di vincere al secondo quando gli elettori possono manifestare le proprie seconde scelte. Basti vedere quanto accade in alcuni turni elettorali francesi. Il secondo turno ha un indubbio effetto deradicalizzante.
Il testo proposto dal Governo è elusivo su questo punto decisivo: non ci si spiega in quanti turni debba essere eletto il premier e come si formi la relativa maggioranza, anche in presenza di una giurisprudenza costituzionale che, in caso di adozione di premi di maggioranza innestati sulla proporzionale, accetta solo uno scostamento ragionevolmente limitato tra voti e seggi sulla base di una soglia significativa per accedere al premio. Il testo all’esame del Senato ci parla di elezione diretta e di maggioranza garantita in seggi, ma non ci spiega se il turno sia unico o doppio (come fanno in Europa con la previsione del ballottaggio a due le Costituzioni in materia di elezioni dirette), se si debba prevedere una soglia e cosa accada se essa non sia raggiunta. Inoltre, a differenza dei modelli sin qui proposti in modo più puntuale (ad esempio quelli Salvi e Cossutta-Bertinotti) che prevedevano un unico voto per i deputati in collegi con indicazione del relativo Premier, qui i voti restano almeno due (Camera e Senato distinti), ma forse diventano anche tre (non si capisce, dice lo studio del Servizio Studi della Camera) se si voti separatamente per il Premier oppure no. Per di più: cosa fare in caso di risultati divaricanti, specie tenendo conto che il voto per gli italiani all’estero sulle schede di Camera e Senato pesa per il due per cento (è loro pre-assegnato un limitato diritto di tribuna di 8 deputati e 4 senatori), mentre potrebbero pesare il dieci per cento su quella del Premier, essendo gli italiani all’estero cinque milioni? Il testo non lo dice.  
Accanto a questi problemi relativi ai pesi, ci sono quelli dei contrappesi da aggiornare. Prendo l’aspetto più delicato, quello del Capo dello Stato. Non mi riferisco tanto alla questione dei suoi poteri che spesso sono citati in modo non convincente; l’adozione del Premierato ha senso se l’insieme delle norme porta a un ruolo più efficace del corpo elettorale, e quindi non può non limitare, sia pur senza annullarlo, il ruolo del Presidente sulla nomina del Governo e a responsabilizzare di più il Premier sullo scioglimento. Perché il Presidente sia davvero un secondo motore, che agisce in caso di crisi, e non diventi il primo a causa della debolezza del sistema dei partiti, occorre appunto valorizzare il ruolo del corpo elettorale. La questione dei poteri è stata nella sostanza risolta da un emendamento del senatore Pera che distingue quelli propri esentando i relativi atti dalla controfirma del Governo, ma resta invece intatto quello della sua elezione in Camere elette, sovrarappresentando lo schieramento vincente.

Perché non ampliare la base elettorale del collegio aggiungendo i parlamentari europei eletti in Italia e un numero di sindaci uguale a quello dei consiglieri regionali e, al tempo stesso, elevare il quorum al 55 per cento in modo da rendere indisponibile la carica a una scelta della sola maggioranza che potrebbe incidere anche sull’effettivo esercizio dei poteri? 
Sono le riflessioni che abbiamo maturato con un gruppo traversale di associazioni (Libertà Eguale, Io cambio, Magna Carta, Riformismo e Libertà) e che sono in sostanza riassumibili con lo slogan “Premierato sì, ma non così’”. È su questo confronto di merito che occorre indirizzarsi puntualmente. Se si riconosce che l’impostazione di fondo dovrebbe essere quella originaria di Diverger e del Club Jean Moulin, difficile poi non trovare accomodamenti ragionevoli sui punti problematici evidenziati.

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