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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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San Giuliano Terme, 30 giugno
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Marina di Vecchiano -giovedi 4 luglio
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Circolo ARCI Migliarino-6 luglio
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
di Umberto Mosso
MELONI E LA SFIDA DI UN’ALTRA EUROPA
Editoriale di Alessandro Barbano“

4/6/2024 - 20:34

Quello che segue è l’ultimo editoriale di Alessandro Barbano pubblicato su il Messaggero del 3 giugno, prima di essere sollevato dall’incarico di direttore del quotidiano romano di proprietà di Franco Gaetano Caltagirone.

 

MELONI E LA SFIDA DI UN’ALTRA EUROPA

Editoriale di Alessandro Barbano“

 

Fare l’Europa non vuol dire contrapporsi agli altri o chiudersi nei confini, ma promuovere il proprio modello a livello globale, dice il governatore di Bankitalia Fabio Panetta nella sua bellissima e liberale relazione annuale di due giorni fa. Il modello che risponde alla domanda «che significa essere europei?», chiosa Massimo Adinolfi nel suo editoriale di ieri sul Messaggero, è quello dell’universalismo dei diritti e delle libertà. Difenderlo, aggiunge, vuol dire stare ancorati al nostro passato e alle nostre tradizioni.Senonché i diritti non nascono in natura come i funghi, in quantità desiderata o desiderabile. I diritti sono beni scarsi, deperibili e, più di tutto, hanno un costo. Vuol dire che, perché qualcuno possa disporne e farli valere, occorre che altri li sostenga e, in un certo senso, ne paghi il prezzo. Questo vale per tutti i diritti, tanto per quelli che vengono definiti sociali, quanto per quelli cosiddetti civili. Così, fare davvero l’Europa significa individuare la giusta misura del rapporto tra valore e prezzo dei diritti, e distribuire l’uno e l’altro in maniera equanime.Se queste sono le coordinate della sfida, è lecito chiedersi in che misura possono farne parte, e giocarla insieme, quei soggetti politici che chiedono più Europa e quelli che, come Giorgia Meloni, l’Europa vogliono cambiarla.

La prima risposta a questa domanda, ancorché implicita, sta proprio nella relazione del governatore di Bankitalia.

Chiunque s’intesti la rappresentanza dell’europeismo, fa intendere Panetta, non può che avere un giudizio positivo della globalizzazione. Ecco il primo spartiacque. Se la globalizzazione ha portato in venti anni la povertà assoluta nel mondo da due miliardi a 800 milioni di persone, se pure questa riduzione della povertà è concentrata in aree del pianeta diverse dall’Europa, se in Europa il potere d’acquisto del cosiddetto ceto medio è diminuito, non tanto rispetto a ciò che si ha, quanto rispetto a ciò che si aspira a possedere, se insomma questa complessità ha messo in crisi istituzioni e società, noi non possiamo maledire la globalizzazione, ma dobbiamo piuttosto sostenerla, correggendone alcuni suoi effetti paradosso e alcuni eccessi. Il perché lo ha spiegato ieri Massimo Adinolfi, raccontando l’europeismo con l’etica di Kant: c’è nella cultura europea una quota di irriducibile cosmopolitismo, che lega l’offerta politica all’avanzamento universale della condizione umana, che legittima l’anelito a promuovere il modello democratico in ogni dove e che impone di considerare il problema della solidarietà pregiudiziale rispetto a qualunque progetto politico e civile.

Tuttavia c’è anche una seconda risposta al quesito su chi e come può cambiare l’Europa. Ed è tratto dalle critiche che il pensiero conservatore muove alle élite del Vecchio Continente. Il progresso da queste immaginato come un processo lineare, fondato sulle libertà individuali, sul multiculturalismo, sulla secolarizzazione, sul multilateralismo, sul superamento dello stato nazionale, sull’incremento del benessere e della mobilità sociale, ha scoperto all’Occidente il suo lato oscuro. Ha diviso le nostre società in modo verticale.

Di qua i vincitori, sempre di meno, sempre più assediati in una autoreferenzialità che mostra la debolezza della loro leadership e la vanità dei loro saperi. Di là i perdenti, moltiplicati dall’impoverimento della classe media e da una sperequazione della ricchezza che ha raggiunto il livello degli anni Trenta del Novecento, storditi ed eccitati insieme da una cultura di massa che promette diritti à gogo e false inclusioni, e condanna alla marginalità e all’analfabetismo cognitivo.Ma c’è anche un’altra mancanza, che si esprime a un livello più profondo, e che tuttavia, secondo il pensiero conservatore, spiega l’impasse dell’Europa. Potremmo definirla un deficit di verità. Consiste nell’assenza di un’istanza valoriale che definisca un sentire comune europeo, tanto più urgente quanto più la laicità tende a esiliare l’ethos cristiano dalla sfera pubblica. L’effetto è una democrazia degenerata in un esercizio procedurale privo di sostanza politica, di memoria storica e di obiettivi etici.La difesa della globalizzazione e il Rinascimento dell’Europa non sono incompatibili. Di più, sono una necessità storica di fronte al disordine mondiale, alle transizioni energetica, digitale e demografica, che ci stanno di fronte, alle guerre che insanguinano i confini geografici e simbolici del Vecchio Continente. Per questo è giusto dire, come fa il capo dello Stato, che con il voto dell’8 giugno consacriamo la sovranità europea, che non è alternativa a quella nazionale. E qui verrebbe da dire che gli altri hanno capito ciò che noi, cittadini europei, rifiutiamo. Lo hanno capito gli afghani, aggrappati ai carrelli degli aerei nel tentativo disperato di raggiungere l’Occidente.

Lo hanno capito le ragazze di Teheran che sfidano una teocrazia feroce, scoprendo il volto e rivendicando nelle piazze il diritto alla bellezza. E ancora i cittadini ucraini, gelosi della propria identità, e tuttavia da due anni in trincea e sotto i palazzi bombardati per continuare a sentirsi «europei». Vuol dire che, se pure la storia temporaneamente arretra, espandendo regimi e autocrazie nel pianeta, la civiltà sotto traccia cresce e si diffonde come un valore universale. Perché l’Europa brilla altrove più di quanto noi sappiamo vedere con i nostri occhi stanchi.Quest’asimmetria tra storia e civiltà ci interroga e ci chiama a una nuova responsabilità. È l’ora di ridare un prezzo giusto ai diritti. E di rimettere in connessione le culture su cui l’Europa si fonda, cioè il liberalismo, il riformismo e il moderatismo cristiano. In nome di una forse inedita necessità storica. Di fronte all’impatto della tecnofinanza sulle società e sugli Stati, il liberalismo deve rinunciare alla tentazione di un’autoregolazione assoluta del mercato, riconoscendo alla politica un ruolo a difesa dell’interesse collettivo.

Di fronte al dirittismo civile e sociale, che corporativizza gli interessi e pone la democrazia in ostaggio delle minoranze organizzate, il riformismo deve riagganciare i diritti ai doveri, dialogando anche con l’etica cristiana, che da sempre nello spazio pubblico rappresenta un sedimento di valori e di responsabilità. Mai come adesso gli elementi di convergenza tra le culture qui considerate sono prevalenti rispetto ai distinguo e alle contrapposizioni.

Mai come stavolta le elezioni europee sono l’occasione di un compromesso possibile e necessario, capace di rifondare il patto rappresentativo e archiviare finalmente il decennio populista”.

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