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ARTICOLO
MICHELE MARCHI
Chi ha vinto davvero le elezioni francesi?
Tra le poche certezze di queste elezioni francesi c’è che il partito di Marine Le Pen ha ottenuto molto meno di quanto si prevedeva. Macron con le sue strategie e la sinistra con la sua alleanza, sembrano esserne usciti, a sorpresa, come vincitori. Ma quello che ci consegna il voto è un paese diviso e in stallo, sul cui futuro è difficile fare pronostici.
In Francia, l’ultimo mese di vita politica ha originato il voto legislativo più incerto e con il risultato meno univoco della storia della Francia della V Repubblica. Non sono mancati, in sessantasei anni di vita del sistema creato nel bel mezzo della guerra d’Algeria dal generale de Gaulle, voti legislativi di un certo interesse. Basti pensare, solo per citarne alcuni, a quello del 1968, a chiusura del ciclo rivoluzionario del maggio francese, con la cosiddetta “marea gollista”, o a quello del 1978, con l’ipotesi di sorpasso delle forze socialiste e comuniste a scapito del presidente Giscard d’Estaing, o ancora quelli che hanno preparato le coabitazioni nel 1986, 1993 e 1997.
In realtà, dopo la riforma del quinquennato, con annessa inversione del calendario elettorale (prima l’elezione presidenziale e a seguire le legislative), il voto per l’elezione dei membri del Palais Bourbon (la sede dell’Assemblée Nationale, la camera bassa francese) pareva essersi trasformato in una sorta di terzo tempo, per confermare la maggioranza del Presidente neoeletto. Un campanello d’allarme era già suonato due anni fa, quando dopo una storica rielezione, ma meno brillante rispetto a quella del 2017, Emmanuel Macron aveva raccolto, dal voto legislativo, solo una maggioranza relativa.
In questo senso le elezioni anticipate frutto dello scioglimento voluto da Macron dopo il voto europeo del 9 giugno 2024, devono essere inserite nel complicato secondo mandato dell’inquilino dell’Eliseo.
A urne chiuse, la nuova Assemblea Nazionale è composta da 184 eletti tra le file del Nouveau Front Populaire, 166 eletti per l’ex maggioranza presidenziale, 126 eletti per il RN, ai quali aggiungere i 17 eletti con la denominazione RN-LR (la componente che ha seguito l’ex segretario de Les Républicains Eric Ciotti), e 65 eletti per Les Républicains (vi sono poi anche una decina di altri eletti con una candidatura autonoma di sinistra e nove come autonomisti regionali). Il dato, in termini di voti che ha senso osservare, è quello del primo turno, con tutti i candidati presenti. Infatti, in 75 circoscrizioni non si è votato al secondo turno, in quanto già eletto il candidato che ha ottenuto, al primo turno, almeno il 50% dei voti. Il RN più la componente fuoriuscita dalla destra post-gollista supera i dieci milioni di voti, il NFP si ferma sotto ai nove e l’oramai ex maggioranza presidenziale si muove poco sotto ai sette milioni. La questione più urgente, oggi, sembra quella di trovare una formula politico-parlamentare in grado di far nascere un nuovo esecutivo, provando a evitare una situazione di stallo politico-istituzionale (che pare comunque possibile).
Nella confusione, c’è anche qualche punto fermo. Il primo di questi, anche se può apparire tecnico, riguarda il sistema elettorale e più nel complesso tutte le dinamiche che ruotano attorno a ciò che è avvenuto tra i due turni del 30 giugno e del 7 luglio. Il maggioritario a doppio turno di collegio costituisce uno degli assi portanti dell’impianto politico-costituzionale della V Repubblica e se si eccettua il 1986 (quando Mitterand, optando per votare con il sistema proporzionale, mise in difficoltà la destra gollista, favorendo il FN, che riuscì ad eleggere una trentina di deputati) è sempre stato utilizzato nel contesto francese. Tale sistema funziona sostanzialmente in questo modo: al primo turno l’elettore sceglie, al secondo turno elimina il candidato che non vuole sia eletto. Dopo averli premiati al primo turno, il 7 luglio l’elettorato francese ha massicciamente eliminato molti candidati FN.
Sempre in relazione a questo tema è lecito chiedersi quanto sia stata importante la dinamica delle desistenze, ovvero la scelta di ritirare uno più candidati affinché la scelta per gli elettori si concentri su due soli contendenti. Questa pratica, pensata per spingere gli elettori a non disperdere il proprio voto, è anch’essa legittima e parte costitutiva della V Repubblica. Si è molto insistito, anche correttamente, sulle oltre duecento desistenze (124 delle quali ad opera del NFP e 80 da parte di candidati della maggioranza presidenziale) che hanno ridotto soltanto a 89 i triangolari. Il dato però ancora più rilevante è stata la risposta dell’elettorato a queste iniziative provenienti dai vertici dei partiti. Alle indicazioni a tavolino è seguita una disciplina di voto per nulla scontata. Questa è stata senza ombra di dubbio la prima grande novità di queste legislative estive.
Niente maggioranza assoluta e nemmeno relativa per il Rassemblement National di Marine Le Pen. L’ondata di voti attesa dopo il primo turno non si è verificata. Ma è corretto sostenere che il RN, dopo aver “vinto” le legislative il 30 giugno, improvvisamente le abbia “perse” la settimana successiva? Assolutamente no. Ciò che si può affermare è che il sistema elettorale e l’ampio numero di desistenze seguite dall’elettorato non hanno permesso di tramutare l’ottimo risultato del primo turno in una maggioranza, perlomeno relativa, al secondo turno. Ma è pur vero che il RN ha raccolto oltre nove milioni di voti il 30 giugno. Sempre dopo il primo turno, su 501 circoscrizioni assegnabili (le altre 76 erano già state attribuite), il RN aveva un candidato in 446. E anche nei casi di sconfitta al secondo turno, in 157 circoscrizioni un candidato RN ha raccolto oltre il 40% dei voti
“La questione più urgente, oggi, sembra quella di trovare una formula politico-parlamentare in grado di far nascere un nuovo esecutivo, provando a evitare una situazione di stallo politico-istituzionale”.Se si passa poi ad analizzare il numero di eletti nell’Assemblea Nazionale la progressione è comunque rilevante. Nel 2017 erano stati otto i deputati RN a entrare all’Assemblea Nazionale,diventati poi 89 nel 2022 e 143 nel 2024 (125 più 17 eletti come dissidenti del LR e un eletto apparentato RN). Più che sui numeri, che comunque fotografano una crescita costante e difficilmente contestabile, ci si deve soffermare sul significato politico e simbolico dei risultati del 7 luglio: RN è passato dall’esaltante prospettiva di una vittoria su tutta linea, alla frustrazione della sconfitta o di una vittoria che non lo è davvero. A pesare per il RN rimane ancora la sua totale mancanza di una cultura di governo. L’impressione è che dal partito di contestazione di Jean-Marie Le Pen si sia passati a quello di opposizione di Marine, ma che manchi ancora la trasformazione in forza di governo. E accanto a questo problema di cultura politica, non si può dimenticare la sua totale caratterizzazione come partito non coalizzabile e dunque difficilmente in grado di attrarre riserve di voti tra il primo e il secondo turno, in particolare in occasione del voto legislativo.
Accanto a una crescita imponente del RN che non si è tramutata in vittoria, il terzo punto da approfondire è relativo a quella che, a sorpresa, si presenta come l’alleanza che raccoglie più eletti, cioè il Nouveau Front Populaire. L’unione tra France Insoumise, socialisti, ecologisti e comunisti è nata in pochissime ore come risposta allo scioglimento dell’Assemblea Nazionale da parte del Presidente. Primo protagonista delle desistenze, il NFP ha ottenuto (184 eletti) un successo che va al di là delle più rosee aspettative dei suoi stessi protagonisti. Con una battuta, il socialista Jean-Christophe Cambadélis ha affermato, a proposito del cartello della gauche: “pensavano di svegliarsi Jean Moulin ed eccoli invece nella parte di Léon Blum”: come a dire che la sinistra pensava di andare al martirio e si ritrova ora a pochi passi dal potere. Ebbene il padre nobile del socialismo transalpino nel 1936 un governo riuscì a crearlo e fu anche capace di ottenere importanti riforme, prima di naufragare tra le divisioni.
Cosa riusciranno a proporre oggi i vertici dei quattro partiti coalizzati nel NFP? Al momento, si può registrare il tentativo di Jean-Luc Mélenchon di attribuirsi un ruolo di primo piano che nemmeno i vertici della stessa France Insoumise sembrano volergli riconoscere. Un secondo elemento da tenere presente è che i rapporti di forza all’interno di quest’alleanza elettorale non sono gli stessi interni della Nupes (La Nouvelle Union populaire écologique et sociale) del 2022. Se infatti la France Insoumise ha aumentato di tre il numero dei suoi eletti (78 ma con almeno cinque potenziali dissidenti al suo interno), sono i socialisti ad aver ottenuto un vero e proprio successo passando da 31 a 69 eletti. Le riunioni tra i vertici dell’alleanza, iniziate non appena giunti i primi risultati del secondo turno, non sembrano decollare, ma sulle prospettive di governo si tornerà a breve.
Si è parlato di “perdenti di successo” (fronte RN), si è accennato a “vincitori divisi” (versante NFP), qualcosa occorre dire dell’oramai ex maggioranza presidenziale e soprattutto di Macron. Colui che ha innescato la “reazione a catena” che ha condotto a questo folle mese elettorale aveva promesso, il 9 giugno, una “chiarificazione” del quadro politico francese: e però il caos sotto al cielo di Francia è aumentato, non è certo diminuito. Se dal generale si passa poi al particolare, le forze macroniane e gli alleati centristi nella loro differente proposta (Bayrou o Philippe) perdono circa 80 seggi rispetto al 2022. Se si ragiona in termini di coalizione nell’attuale nuova Assemblée, i 166 seggi sono comunque diciotto in meno rispetto a quelli del NFP. E dunque Macron, salutato da molta stampa come il grande vincitore di queste elezioni, sarebbe invece stato sconfitto su tutta la linea? Anche qui occorre essere cauti. La reazione dopo che la sua lista alle europee del 9 giugno era stata praticamente doppiata in termini di suffragi rispetto a quella di Le Pen e Bardella ha avuto un effetto non trascurabile: il RN, che reclamava la guida del Paese e una coabitazione in quanto primo partito di Francia, di fronte alla contesa elettorale per ottenere democraticamente tale risultato, è uscito battuto.
Peraltro, il Presidente sta già raccogliendo i dividendi della sua “sconfitta di lusso”, lasciando l’iniziativa nel campo delle forze del NFP, dopo aver respinto le dimissioni del Primo ministro uscente Attal e non avendo ancora pubblicamente riconosciuto allo stesso NFP la possibilità di avanzare un nome come possibile Primo ministro. Lasciare decantare la situazione, magari con un governo Attal per la durata delle Olimpiadi, significa per l’Eliseo cominciare a prendere le misure e attuare una serie di contromosse anche di fronte alla tendenza a una sorta di parlamentarizzazione del sistema, i cui effetti sull’evoluzione sistemica della V Repubblica meritano di essere analizzati.
Mai come oggi, le dinamiche parlamentari sembrano avere un peso sostanziale nella Francia della V Repubblica, peso che però non deve essere esagerato.
E questo essenzialmente perché il primato presidenziale del sistema istituzionale non è venuto meno. Macron sarà anche un inquilino dell’Eliseo contestato, ma rimane comunque dotato di un’esclusiva legittimazione diretta su scala nazionale, non comparabile a quelle dei singoli eletti dell’Assemblée, strettamente legati alla propria circoscrizione. Non si deve dimenticare che le istituzioni volute da de Gaulle vedono nel Presidente il suo fulcro. È il Presidente che presiede il Consiglio dei ministri, l’ordine del giorno dei lavori parlamentari è deciso dal governo, l’articolo 49.3 resta un meccanismo di razionalizzazione potente del parlamentarismo (voto senza dibattito di un provvedimento al quale ci si può opporre solo con mozione di censura a maggioranza assoluta, con assenti che contano come voto per la maggioranza) e comunque un governo anche minoritario può nascere senza obbligo di voto di fiducia, a patto che non giunga appunto una mozione di censura. Per fare un esempio fantasioso: se oggi le “estreme”volessero coalizzarsi in negativo per opporsi a un governo di “grande coalizione” alla francese, potrebbero contare su circa 220, al massimo 230 deputati, ben lontani dai 289 voti Questo richiamo all’ipotesi di governi di minoranza apre al ventaglio di possibilità che sono sul terreno dopo che le urne hanno fotografato un’Assemblea nazionale formata da tre blocchi (NFP, Ensemble, RN), più un quarto, molto meno consistente da un punto di vista numerico, ma potenzialmente importante, composto dai 65 deputati de Les Républicains. Se si accetta che l’ipotesi di un governo di minoranza espresso soltanto dal NFP è una specie di calembour politologico, vi sono due concrete possibilità. Da un lato un governo sinistra-centro che vada dai socialisti sino ai centristi di maggioranza (tagliando dunque fuori LFI), che potrebbe ottenere il sostegno di 250/260 deputati e, complice una sostanziale tregua d’armi con Les Républicains, potrebbe evitare l’ipotesi di una mozione di censura. Questo implicherebbe però, da parte del PS, assumersi la responsabilità di porre fine al “fronte repubblicano di sinistra”, denunciando l’estremismo de La France Insoumise. Possibile in questo momento? Dall’altro lato un governo di centro-destra, sommando l’ex maggioranza presidenziale alle forze della destra post-gollista che non hanno scelto di avvicinarsi al RN. Si arriverebbe ad un governo di minoranza sostenuto da poco più di 230 deputati. La mozione di censura in questo caso sarebbe però poco probabile poiché potrebbe verificarsi solo sommando i voti del RN a quelli del NFP. È questa l’ipotesi preferita da Macron?
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Al netto di queste speculazioni si deve ricordare una possibile data chiave: quella del 18 luglio prossimo. Il 17 luglio i deputati eletti formeranno ufficialmente i gruppi parlamentari (il NFP costituirà un gruppo unico o si limiterà ad un intergruppo?) e il giorno successivo eleggeranno il loro presidente, nei primi due scrutini a maggioranza assoluta e dal terzo a maggioranza semplice. La combinazione di voti che determinerà il padrone del cosiddetto “perchoir” (lo “scranno più alto”) di Palais Bourbon potrà fornire qualche interessante indicazione su come si costruirà un possibile sostegno parlamentare al nuovo esecutivo.
In questo quadro incerto e in costante evoluzione, si possono aggiungere due provvisorie considerazioni conclusive. La destrutturazione delle culture politiche tradizionali della V Repubblica, con socialisti e gollisti artefici della bipolarizzazione del sistema, ha visto un punto di svolta a partire dal 2017, è poi proseguita nel 2022 e ha confermato, in questa inattesa estate elettorale, di essere ancora in atto.
Attenzione però: si è di fronte a un Paese diviso e polarizzato. Il voto ha fotografato un “arcipelago francese” fatto di isole: le grandi metropoli urbane (Parigi innanzitutto) scelgono i partiti progressisti o al più liberal-democratici, le periferie votano in massa per il radicalismo (soprattutto de La France Insoumise), mentre la Francia periurbana, deindustrializzata, agraria e che si percepisce come declassata, sceglie compatta il RN. Eliseo e Assemblea Nazionale sono di fronte ad un bivio che è anche un punto di non ritorno. Dare un governo al Paese e soprattutto garantire quella governabilità mai mancata in sessantasei anni di vita della V Repubblica costituiscono l’ultimo appello per una classe politica francese che deve poi affrontare contraddizioni, disparità e rancori che dominano l’arcipelago transalpino. In gioco sono il futuro della Francia almeno quanto gli equilibri di una fragile Europa, stretta tra la guerra ai suoi confini e l’incertezza del prossimo voto statunitense. La sequenza apertasi a Parigi il 9 giugno è ben lungi dall’essersi chiusa il 7 luglio. E questa non è davvero una buona notizia.
Michele Marchi
Michele Marchi è professore di storia contemporanea presso il Dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna.Insegna tra le altre materie Storia del Mediterraneo Moderno e Contemporaneo e Political History of European Integration. Il suo ultimo libro è Presidenzialismo a metà. Modello francese, passione