Nei suoi numerosi articoli sulla storia del territorio, Franco Gabbani ha finora preso come riferimento, personaggi o avvenimenti storici, inquadrandoli nella cornice degli usi e delle norme dell'epoca.
Questa volta prende spunto da situazioni e argomenti curiosi, spigolature come le chiama.
Al di là dei fatti precisi, quello che colpisce particolarmente, è il linguaggio usato nei documenti, non solo formale e involuto, come da sempre ci ha abituato la burocrazia, ma spesso anche di difficile comprensione, esplicitando l'evoluzione continua della lingua e dei termini.
Un bipolarismo per la Terza Repubblica?
Le elezioni in Liguria possono avere il valore di un test nazionale?
Come sempre in questi casi si può rispondere sia affermativamente che negativamente, perché una elezione regionale tiene conto di un contesto circoscritto (in questo caso anche abbastanza ristretto) e perché comunque verrà letta come indicativa per una stagione di amministrative che nel 2025 vedrà alle urne importanti regioni e importanti comuni.
Cerchiamo allora di mettere in luce qualche elemento che ci sembra emergere da quanto è accaduto in Liguria.
Prima di tutto abbiamo visto che ormai ci si muove in un ambito di bipolarismo consolidato che non lascia spazi al proprio esterno: per quanto i candidati che non facevano riferimento ad uno dei due poli fossero poco più che delle figure estemporanee, il fatto che abbiano raccolto poco più del 3% dei consensi è indicativo. Altrettanto lo è il fatto che questa volta il cosiddetto “centro” o si è presentato col centro sinistra o quando è stato vittima della stupida fatwa di Conte non ha partecipato.
In un contesto in cui vota la metà degli aventi diritto (46% per l’esattezza) l’elettorato si è praticamente spaccato a metà fra i due poli, segno di una radicalizzazione del confronto che pone non pochi problemi di schieramento.
Evidente che in un contesto del genere ogni “polo” deve combinare due elementi contrastanti: da un lato non perdere i voti delle varie componenti “identitarie” che pretendono di essere riconosciute come tali, dal lato opposto cercare di sfondare verso quell’elettorato per nulla o meno identitario spostando il quale si può quel pugno di voti che può portare alla vittoria.
Nel caso ligure sembra di poter dire che il centro destra è stato più abile nel tenere insieme i due aspetti e il merito va in gran parte a Giorgia Meloni, che ha imposto come candidato un amministratore fuori dalle filiere professionali dei partiti e caratterizzato da una fama di uomo del fare per via del suo successo nella ricostruzione del ponte Morandi. Non è stato sufficiente per stravincere, ma lo è stato per vincere e questo è ciò che conta. Per di più Bucci ha avuto anche un buon successo con una sua lista personale, il che gli dà spazio per gestire i rapporti con una coalizione che sicuramente non sarà pacifica.
Diversa la situazione nel centro sinistra. Qui non solo ci si è dovuti arrendere alla stupidità politica di Conte e dei Cinque Stelle, opportunamente sostenuti dall’estrema sinistra di AVS, ma si è dovuto trovare un compromesso nello scegliere come candidato Andrea Orlando, personalità di spicco del partito nazionale, ma non proprio una figura carismatica né a livello nazionale, né tanto meno a livello locale.
Il risultato è stato un notevole successo del PD come partito (in quanto sfrutta tutta una tradizione di presenza nella storia ligure), ma un flop delle liste collegate, inclusa quella del candidato presidente.
È facile dire che M5S con la sua tradizione di opposizione a tutte le politiche di intervento sul territorio in nome del solito utopismo astratto ha indebolito Orlando che non ha mai trovato il coraggio di dire che le opposizioni pentastellate alle grandi opere non rientravano nel suo programma (ha cercato di cavarsela col solito: valuteremo, non si sa se ci sono i soldi, ecc. ecc.).
Adesso vedremo cosa i partiti nazionali mostreranno di avere imparato dalla lezione ligure. Meloni per esempio questa volta ha puntato, non certo col favore della sua coalizione, su un candidato “esterno” e per di più non estratto da quella che viene definita la sua piccola corte. Continuerà su questa strada? Non ci sono molti segnali in questa direzione.
Il PD, ma soprattutto la sua segretaria capirà che per vincere deve costruire una vera alleanza intorno ad un proprio progetto credibile, e se si perde qualche alleato e si rischia di non avere i numeri per vincere alle prossime elezioni, pazienza, perché così si vincerà a quelle dopo? Il campo largo o come si vuole chiamarlo va costruito avendo il coraggio di chiedere a tutte le componenti di riformarsi: niente personalismi, niente posti garantiti ai superstiti del professionismo politico, niente alleanze come pura somma di forze che vogliono rimanere quelle di sempre. Vale per tutti, ma ovviamente a partire dallo stesso PD che non è esattamente un modello di partito nuovo (le sparate vetero ideologiche opportunamente riverniciate non ottengono il risultato del cambiamento).
Vedremo se nel predisporre la strategia per le amministrative dell’anno prossimo i ceti dirigenti dei due poli avranno imparato qualcosa. Tanto per buttare lì due questioni: la Lega e FdI capiranno che la successione a Zaia non può essere gestita nella logica dell’occupazione del potere? Il PD comprenderà che lo stesso vale per la successione di De Luca in Campania (la scelta di Fico per compiacere M5S non sarebbe una gran trovata…) e di Emiliano in Puglia richiede una soluzione alla Bucci?
Il grande tema per tutti sarà come erodere il bacino dell’astensione. È necessario che i partiti capiscano che la gente è stanca del professionismo politico, perché se si presenta quello non vede differenze fra i due schieramenti, e che vuole politiche del fare e non promesse sulla rapida risoluzione dei problemi, perché sa benissimo che non hanno possibilità di successo.
Fra poco analizzeremo come andranno le elezioni in Emilia Romagna e in Umbria e se queste aiuteranno i partiti a capire che stiamo entrando in un’altra epoca. C’è da augurarselo.