Con questo articolo termina la seconda serie di interventi di Franco Gabbani, attraverso i quali sono state esaminate e rivitalizzate storie e vicende del nostro territorio lungo tutto il secolo del 1800, spaziando tra fine '700 e inizi del '900 su accadimenti storici e vite di personaggi, che hanno inciso fortemente oppure sono state semplici testimonianze del vivere civile di quei tempi.
Questa fiera è stata quella dell’avventura.
Siamo nel centro dell’Africa, a Nairobi, in Kenya. La capitale è modernissima, solo la periferia ti dà l’idea di essere in un paese africano: capanne, le loro case, strade bianche e una distesa di solitudine.
La prima opera fu la pulizia di un grande spazio dove poi avremmo installato i padiglioni. La natura era diversa, diverse le erbe, gli alberi e…gli animali ed uno si fece prendere con la strana repulsione dei locali che si scostavano da me dicendo (non lo so ma lo penso) che un bianco scemo non l’avevano mai visto!
Avevo trovato un camaleonte, prenderlo fu facilissimo, e volevo vedere se fosse vero quel che si dice di questi animali, cioè cambiare colore a seconda del supporto sul quale sono aggrappati. Se io, a quel tempo mi chiamavan “biondo”, lo avessi messo sulla testa sarebbe diventato biondo anche lui?
Non fu così, un poco azzurrognolo come la camicia sì, ma non di più. I lavori proseguivano secondo i tempi stabiliti, il mangiare era buono e la richiesta di mano d’opera aumentava con uno strano modo di calcolare le ore lavorative. Eravamo vicinissimi all’equatore e non avevamo messo in conto che le giornate hanno la stessa durata nella sua divisione fra luce e buio: dalle 5 alle 17 giorno e da quest’ora alla mattina seguente notte. Per l’entrata ci adeguammo ma il problema era la sera, per noi era pomeriggio, quando alle 15 e 30 gli operai sparivano, senza dare giustificazioni. Ero l’unico che dialogava con loro e piano piano imparavo la loro bellissima lingua, il suahili, e dai colleghi mi fu chiesto di scoprire il perché. La risposta degli operai mi fece accapponare la pelle.
L’80 per cento dei neri abitavano lontano e se fossero partiti (a piedi) alle 17 avrebbero dovuto viaggiare di notte con il pericolo di essere uccisi da altri gruppi nemici della loro tribù! Lo riferii all’ingegnere che mi disse semplicemente di cercarne altri. Le trattative, non solo ero l’unico elettricista delle missioni ma mi trovai ad essere anche un sindacalista, furono brevi; riportai (di testa mia) che o accettavamo o sarebbero scesi in sciopero. Questa forma di lotta non era conosciuta e quando la proposi ci fu un coro di “ce ne sono tanti che prenderanno il nostro posto”. Non so cosa mi spinse a dire loro che potevano prendere i tubi che servivano per tenere i ponteggi e usarli pe tenere lontani gli eventuali intrusi. Sapevo che era un bluff perché il nostro capo era un “tenerone” ed avrebbe accettato l’orario ridotto.
I lavori andavano bene quando apparve un ragazzo masai, Inania si chiamava, che divenne poi il mio aiutante per tutto il tempo dei lavori e che non veniva visto di buon occhio dagli altri di diverse etnie. Le prime parole che capii furo “kazi” che significava “lavoro” e la mia risposta fu “apana kazi” che era “non c’è lavoro” controbattuta con “kazi ninghi” = “tanto lavoro” e così avanti per ore con kazi, apana e ninghi fino ad un suo “moja bibi?”. Era l’offerta di “una donna” per avere il lavoro!
Non sarei mai arrivato a tanto, ma mi venne la voglia di vedere a cosa sarebbe arrivato lui ed accettai. Inania si mise sul bordo della strada, fermò una giovane che passava, le parlò e la ragazza venne a testa bassa verso di me, senza guardarmi lasciandomi sorpreso.
“Inania apana moja, mbili”, provavo con due, e il copione fu lo stesso, anche la seconda ragazza si mise “in coda”. Salutai le due keniote, sempre a testa bassa che non potei guardare negli occhi e dissi a Inania che poteva lavorare con me, senza pagar mazzette. Il masai mi fece vedere alcune cicatrici che aveva sulle spalle e che erano ferite per la prova di divenir guerriero andando a caccia di simba (leone) per passare nell’età adulta. Da quel momento lui si chiamò Kazi ninghi per me e lo stesso io per lui.
Volli conoscere la sua tribù e i suoi genitori e una mattina con un taxi andai al villaggio. Un’accoglienza da lacrime, abbracci e baci e un invito a pranzo che mi è rimasto negli occhi anziché nello stomaco: frutta varia e una bella ciotola di formaggio di capra con sangue di pecora!
Avevamo finito, inaugurato e presi una decisione contro ogni regola: rimanere ancora un paio di giorni e dovetti promettere di “fare il bravo”! Solito autista, acqua benzina e tenda e via nella savana. Giraffe curiose, un rinoceronte che ci sfidò in una corsa, antilopi guizzanti dappertutto, quello era messo in conto, e un incontro con una jeep di turisti. Il loro autista volle sapere se avevamo incontrato leoni e era doveroso un saluto: “good morning” a due americani bardati di cannocchiali, macchine fotografiche, “guten morgen” a due tedeschi con le guance belle rosse e…” buongiorno” a un tizio tutto perbenino e solo solo che mi chiese il perché avessi usato quel saluto al quale risposi che riuscivo a riconoscere la nazionalità di ciascuno. Per una volta mi feci “grande” dicendo anche che stavo lavorando per Epoca!
Un’ultima cosa: vi ricordate i vecchi fumetti di Topolino e Paperino dove lo Zio Paperone camminando intorno alla montagna di monete, dicendo “mumble mumble”, aveva scavato un solco?
Anch’io dissi “boia deh, deh boia” quando la mattina dopo trovai una fossetta intorno alla tenda dove avevo dormito (l’autista aveva usato la macchina), un accerchiamento annusamento di chi sa quanti animali e di che tipo avevano scuriosato intorno, ma non erano orchi delle fiabe dove “ucci ucci sento odor di cristianucci”, erano solamente curiosi… come me!
Ciao Africa, a presto!