Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
IN ABRUZZO ED ALTRE CITTA’ 1894-1897
D’Annunzio trascorse i primi mesi del 1894 nella solitudine del Conventino, impegnandosi nella stesura del “Trionfo della morte”, terminato e pubblicato in Aprile, presso Treves; nello stesso periodo presso Bideri uscì “Intermezzo”, (edizione completamente rinnovata di Intermezzo di Rime). In Settembre, trovandosi a Venezia per incontrare Herelle, conobbe Eleonora Duse, già avvicinata a Roma in veste di cronista della Tribuna. L’incontro fra i due era scritto nelle stelle perché la Duse era dannunziana prima ancora di conoscere D’Annunzio. In autunno si stabilì nel Villino Mammarella, a Francavilla, con la Gravina e la figlia ed iniziò la faticosa elaborazione del romanzo “Le vergini delle rocce”, apparso a puntate sul Convito (da Gennaio a Giugno 1895)e poi in volume presso Treves con data 1896. Nel 1895 D’Annunzio partecipò alla nascita del Convito, la rivista fondata da Adolfo de Bosis.
VIAGGIO IN GRECIA
Da vero artista quale d’Annunzio certamente era, sia pure mescolato al ciarlatano, egli aveva intuito i tempi e li preveniva, sempre per la sua vocazione a diventarne protagonista. Era il momento in cui l’Italia ripudiava la sua politica del “piede di casa” per lanciarsi, sotto il pungolo di Crispi, nella grande avventura coloniale. Aveva bisogno di credere in se stessa, nella propria missione, nel proprio primato. E D’Annunzio, per fornirgliene i motivi, andò a cercarli in Grecia sul panfilo del suo amico Edoardo Scarfoglio.
“E’ tempo di tornare al sano pregiudizio che fece la grandezza di Atene e di Roma: credere che tutti gli altri popoli sono barbari”
scrisse d’Annunzio al suo traduttore francese Herelle. In uno dei poemi, Maia, che poi dovevano comporre il grande libro delle Laudi, la sua Summa poetica, egli descrive la partenza da Brindisi, ch’era stato il punto d’imbarco per la Grecia di tutti gli intellettuali romani, la lunga navigazione sul mare di Ulisse, l’approdo in Leucadia, il promontorio da cui gli amanti delusi usavano, sull’esempio di Saffo, annegarsi in mare, e poi le bianche processioni dei sacerdoti orfici coronati di rose, e le gare degli atleti nell’arena e le fontane di Castalda che ubriacavano i passanti con la musica del loro sciacquio, e l’incontro con Telemaco e Alcibiade, Pindaro e Pericle, Penelope e Afrodite. Herelle, che lo aveva accompagnato, quando lesse quelle pagine straripanti d’immagini e di aggettivi, ebbe una crisi di rabbia. Da bravo ed intelligente professore di filologia, egli aveva tenuto un diario di quel viaggio, dal quale risultava che il panfilo non partì da Brindisi, ma da Gallipoli; che durante tutta la traversata il poeta del mare, che diceva di essere nato su una galea, non fece che lamentarsi del mal di mare, si rifiutò di rileggere L’Iliade e l’Odissea, come aveva promesso al sua traduttore, preferendo parlare con Scarfoglio della Roma attuale, delle sue Duchesse e avventuriere, oppure starsene nudo a prendere il sole (d’Annunzio fu forse il primo italiano a praticare il culto della tintarella). Egli non cercava qualcosa da vedere, ma soltanto da descrivere, e lo fece da par suo, inventando tutto, ed in uno stile che era esattamente la negazione di quel sobrio e composto ideale di bellezza classica, cui egli diceva di volersi ispirare. Di queste interminabili Laudi, ch’egli compose col dichiarato proposito di farne la sua Divina Commedia, solo Alcyone riluce di autentica poesia. Il resto somiglia piuttosto ad un barocco Baedeker, in cui l’effetto è affidato soltanto alla magia evocativa dei nomi e alla sonorità degli aggettivi: un esercizio a freddo, da grande virtuoso del verso quale D’Annunzio certamente era, ma che su un pubblico provinciale e accademico come il nostro era destinato a sortire sicuri effetti. In Autunno si recò a Venezia, per partecipare alla chiusura della prima esposizione nazionale d’arte e l’occasione gli permise di incontrare nuovamente la Duse, favorendo la nascita di quel sodalizio passionale, artistico ed intellettuale, che orienterà l’estro del poeta verso il Teatro, un genere adatto alla tematica superomistica ed alla repentina fruizione delle masse. Tra Ottobre e Novembre i due artisti dimorarono a Venezia, da dove resero noto alla stampa il progetto di creare un grande teatro ad Albano. In teatro si era già cimentato, con poco successo. Ma ora poteva contare su una interprete d’eccezione: Eleonora Duse. Diva in ogni suo gesto e parola, mandava in rovina gli impresari che la scritturavano perché bastava una variazione di clima o la vista di un cielo fuligginoso per impedirle di recitare; ed era così immedesimata nel suo personaggio che si rifiutava ai rapporti di amicizia con gli attori che nei suoi drammi interpretavano la parte del cattivo. Quando fece La signora delle camelie, diede ad Armando un bacio così insistito e penetrante che perfino il pubblico francese ne rimase scandalizzato. Per D’Annunzio, prima d’incontrarlo, aveva manifestato la più viva antipatia. Ma appena egli le propose di diventare la sua eroina, essa lasciò tutto, impegni, scritture, e perfino la sua casa di Venezia per venire ad abitare a Settignano sui colli fiorentini, dove egli aveva affittato una villa dei marchesi Capponi.
IN POLITICA
Fu nel periodo di gestazione del poema ch’egli fece il suo debutto politico. Per molti, fu una sorpresa perché D’Annunzio aveva sempre ostentato per la politica il più profondo disprezzo. Questo era un atteggiamento comune a quasi tutti gli intellettuali di allora, compreso il grande maestro della poesia civile, Carducci. Ma mentre il disprezzo di Carducci si appuntava contro gli uomini, non contro le istituzioni, delle quali anzi egli restava l’appassionato bardo, D’Annunzio vi coinvolgeva anche queste, senza nessun rispetto nemmeno per la tradizione risorgimentale di cui esse costituivano l’anima ed il retaggio. A queste tradizioni D’Annunzio era poco legato: un poco perché in Abruzzo esse avevano scarse radici, ma più ancora perché al suo ideale aristocratico il Rinascimento era più congeniale del Risorgimento, cui si convertì solo più tardi e grazie ad una laboriosa trasfigurazione poetica. Considerava la democrazia il trionfo della mediocrità, chiamava “cloaca” il Parlamento, insomma forniva il più autorevole contributo al diffondersi di quel qualunquismo che fu il vero concime del fascismo. Ma in questa disprezzata politica egli non entrò per fare politica. C’entrò, come scrisse al suo editore Treves, per dimostrare a tutti ch’era capace di fare anche quella, e di primeggiarvi impartendone lezioni ai professionisti. Pose la sua candidatura al Collegio di Ortona, dove poteva contare su numerose relazioni di parentela e di amicizia, ed è probabile che si presentasse come uomo di Destra solo perché il suo avversario, Altobelli, si presentava come uomo di Sinistra. In che conto tenesse conto di queste etichette ideologiche lo dimostrano i suoi discorsi, in cui di programma politico non c’era traccia. Egli non parlò che dei vincoli di sangue che lo legavano alla sua terra, e degli struggenti ricordi e delle poetiche immagini che questa gli suggeriva, e di Roma, e di Virgilio, e di Esiodo. Ad un elettore che gli chiedeva cosa avrebbe fatto e dove si sarebbe collocato in Parlamento, rispose che avrebbe certamente scelto un seggio al di là dell’estrema Destra che dell’estrema Sinistra. E ciononostante vinse perché tutti stavano a sentire non cosa diceva, ma come lo diceva, ed in questo rivelò autentiche doti d’incantatore. Ma nel dibattito parlamentare, dove bisognava affrontare i problemi sul piano concreto, queste doti gli furono di così scarso aiuto che per due volte sole egli si alzò a parlare in mezzo a un generale disinteresse condito d’ironia. Fu forse per questo che un giorno, durante un acceso dibattito, egli abbandonò il suo scranno di Destra e, attraversata teatralmente tutta l’aula, andò a sedersi a Sinistra fra i socialisti dicendo:
“Vado dalla morte alla vita”.
Non aveva altro modo per attirare l’attenzione su di se, e ci riuscì. Ne aveva azzeccato anche il momento: al governo c’era Pelloux che con le sue misure repressive stava portando acqua all’opposizione, come si vide quando questa lo mise in minoranza costringendo il Re a bandire nuove elezioni. Con la sua nuova etichetta socialista, che aveva fatto gran scalpore in tutta Italia, d’Annunzio ripropose la sua candidature, ma dovette per decenza cambiare “Collegio”, e stavolta optò per Firenze, dove si era frattanto accasato. Fu una scelta infelice. Per avversario stavolta aveva Cambray-Digny, uomo di levatura ben diversa da quella di Altobelli, e come elettorato un pubblico meno sensibile di quello abruzzese alle belle immagini e alla musica delle parole. Invano D’Annunzio cercò di sedurlo parlandogli di Dante, di Leonardo e di Michelangelo. Per quanto socialisti, i bottegai fiorentini volevano sapere quando avrebbe pagato i debiti che frattanto egli aveva a piene mani contratto nei loro negozi, mentre gli operai e gli artigiani gli chiedevano quali misure fiscali si proponeva di applicare contro i ricchi e in aiuto dei poveri. E siccome a questi problemi il poeta si mostrava del tutto sordo, lo trombarono sonoramente. Così finì la carriera parlamentare di D’Annunzio: due discorsi alla Camera ed un duello contro il giornalista Bernabei ne costituivano tutto l’attivo. Ma essa sortì due effetti che dovevano rivelarsi di importanza nazionale. Primo, acuì nell’uomo, mescolandola ad una oscura smania di rivincita, l’ostilità verso le istituzioni democratiche. Secondo, lo rese cosciente della magia ch’egli esercitava sulla folla, e che da quel momento diventò per lui una specie di droga. Dopo aver trascorso l’inverno a Roma, nel Marzo 1898 D’Annunzio e la Duse si trasferirono in Toscana, a Settignano (Fi). Il poeta dimorò nell’antica Villa dei Capponi, “La Capponcina”, compiacendosi dell’elegante e lussuoso ambiente, che come al solito:
“amava di circondarsi di cose superflue”
Andrea Balestri
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