Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
LA CAPPONCINA
Anche la Duse ne affittò una a pochi passi, che con somma irriverenza egli battezzò “La Porziuncola”, come la Cappella di S. Francesco d’Assisi. Insieme essi formarono la coppia più chiacchierata d’Europa. Si disse che la loro poetica ispirazione era attinta a misteriosi filtri distillati al chiaro di luna dentro il teschio di una vergine, e che quando andavano al mare egli vi s’immergeva nudo in groppa al cavallo, mentre lei lo aspettava sulla spiaggia avvolta in un peplo purpureo che poi serviva di coltre ai loro amplessi.
DUSE contro BERNHARDT
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In realtà pur associandola alle sue dannunzianate, d’Annunzio badava ai propri affari. Diede alla Duse Il sogno di un mattino di primavera, ma le negò La città morta, ch’essa smaniava d’interpretare, perché questo dramma lo aveva promesso all’altra grande diva del tempo, la francese Sarah Bernhardt. Fu forse per questo che la Duse, la quale aveva sempre evitato il confronto diretto con la grande rivale, decise di portare il sogno… a Parigi, dove la sfida fece accorrere tutto lo snobbismo intellettuale d’Europa. Non fu un fiasco solo perché i nomi dell’autore e dell’interprete non lo consentivano. Ma la critica non potè fare a meno di rilevare l’arteficiosità dell’intreccio, la prolissità dell’azione e soprattutto la declamatoria verbosità dei monologhi. “Un esperimento italiano” lo definirono per risparmiarsi parole più crude, e la Bernhardt ne gongolò a non andò bene nemmeno a lei. Malgrado la sua straordinaria bravura, “questa Città morta è una città da morire” scrissero i critici, e avevano ragione. D’Annunzio era un pessimo drammaturgo. Tutti i suoi personaggi parlano come d’Annunzio, e fanno della parola non il mezzo, ma il fine, cesellandola, affastellandola di aggettivi preziosi e carichi di effetti che si esauriscono nella loro sonorità.
AMORE PER LA DUSE
Non sappiamo quanto l’insuccesso abbia contribuito a provocare “la fine dell’amore del secolo”, o almeno ad affrettarla. Probabilmente egli non era mai stato innamorato; la Duse non era bellissima ed inoltre aveva sei anni più di lui. Visto che sulla scena non gli serviva molto, egli la fece eroina di un romanzo, Il fuoco: il romanzo del loro amore. Preannunciato con grande anticipo e strepito pubblicitario esso era spasmodicamente atteso, ed almeno sul piano scandalistico non deluse. La Duse era riconoscibilissima nelle vesti di una dama veneziana ormai al tramonto, un tramonto descritto nei minimi dettagli fisici, perdutamente innamorata di un uomo vent’anni più giovane di lei. Il successo del libro fu pari all’indignazione che gli fece da concime, come l’autore doveva aver calcolato. Si disse che per prevenirne la pubblicazione, la Duse aveva comprato il manoscritto con il ricavato di tutti i suoi gioielli e che D’Annunzio, dopo aver intascato la cospicua somma, lo aveva dato egualmente alle stampe. Si disse che aveva dovuto riscriverlo perché lei lo aveva bruciato, ma non era vero nulla. Umilmente, essa aveva soltanto chiesto al suo Poeta il permesso di stargli vicino mentre componeva il capolavoro. E, dopo averlo letto , si dichiarò più orgogliosa di avergliene fornito l’ispirazione che offesa per il modo in cui essa stessa era stata rappresentata. Per la prima volta si vide quanto lo scandalo giovi alla gloria letteraria. Tradotto in tutte le lingue, quel brutto romanzo fece di d’Annunzio un autore di fama non più nazionale, ma internazionale; che era poi l’unica cosa che gli stesse a cuore.
ANCORA DRAMMI
Per nulla smontato dai fiaschi teatrali, insiste a sfornare drammi su drammi, quasi sempre andando a cercarne i pretesti in quelle epoche storiche di transizione in cui le civiltà si decompongono e l’elemento barbarico riprende con tutta la sua forza belluina il sopravvento sull’ordine sociale non più in grado di frenarlo. Egli prediligeva naturalmente questi periodi perché i più congeniali al suo Superuomo, che poi è sempre lui, d’Annunzio, sia pure rivestito di panni sempre diversi. Per raggiungere i suoi effetti non badava a mezzi. Alla prima della “Francesca da Rimini”, a Roma poco mancò che lo linciassero perché volle rappresentare dal vero la scena di un bombardamento, ed una catapulta demolì una parete sprigionando un gas inventato da un suo amico chimico che quasi asfissiò gli spettatori inferociti. Ma queste bizzarie contribuivano alla creazione del personaggio d’Annunzio quanto i suoi innegabili doni poetici, e forse di più. Nonostante la prova del “Fuoco”, la Duse era sempre inebriata di lui, e dilapidava i suoi risparmi per rappresentarne le opere all’estero davanti a platee semivuote. Il poeta la ricompensò affidando ad Irma Grammatica la parte di protagonista nel “La figlia di Iorio”, sua unica opera teatralmente valida.
ROTTURA con LA DUSE
La Duse se ne ammalò di dolore, ma resistette anche a quell’affronto. La crisi nei loro rapporti sopravvenne per altri motivi. Un giorno che il poeta era assente, essa chiamò alla Capponcina un suo amico e gli ordinò di appiccarvi l’incendio; nella camera da letto di Gabriele, aveva trovato due forcine che non appartenevano al suo armamentario; disse:
“il tempio è profanato, solo il fuoco può purificarlo”
Quelle due forcine erano cadute dalle chiome di Alessandra Di Rudini, che era entrata nella vita di d’Annunzio con la violenza dell’uragano. Capricciosa, appassionata di cavalli e con le mani bucate, essa diede un forte contributo alla montagna di debiti su cui d’Annunzio già teneva penosamente in bilico. Nella vita privata egli era rimasto Andrea Sperelli, ed aveva fatto della Capponcina il deposito di tutto ciò che considerava suprema raffinatezza. La villa grondava di oggetti, come la sua prosa di aggettivi. Damaschi, velluti, cuscini, tabacchiere, vasi, piatti, bronzi, busti, reliquie, miniature, frammenti; c’era tutto, e quasi tutto falso, ma lui lo aveva pagato come autentico perchè di arte e antiquariato non capiva nulla. E così per mettere assieme quel pacchiano bric-a-brec da rigattiere di provincia, era sprofondato in un pozzo di cambiali, cui ora Alessandra aggiungeva le sue. Essi ebbero venti servitori, cinque cavalli, trenta cani e duecento piccioni. Su questi sfondi da palazzo orientale il poeta si aggirava stivalato ed in una giacca rossa, circondato da levrieri, oppure componeva in piedi reggendo la penna senz’appoggiare il gomito al tavolo secondo un metodo di scrittura che diceva di avere imparato da un maestro giapponese. Si rifiutava di riguardare i conti che il segretario gli presentava e che denunziavano un passivo (per quei tempi!) di oltre un milione di lire perché, come Balzac, era convinto di possedere un talento commerciale che gli avrebbe consentito di riparare a tutto, ed infatti ci si provò tentando una speculazione su un’acqua minerale che naturalmente finì in un disastro. Era talmente sprovveduto in fatto di contabilità che rifiutava anche gli assegni dei suoi editori perché non li considerava denaro, e voleva essere pagato in biglietti, che poi nascondeva fra le pagine dei libri, spesso dimenticandoveli, perché non si fidava delle banche. Fu in questo periodo ch’egli non solo diede il meglio della sua produzione letteraria, ma anche impose il proprio “personaggio” come modello di stile e di vita. Le donne assumevano gli atteggiamenti e le pose delle eroine di d’Annunzio, parlavano come loro infiorando i loro discorsi di parole arcaiche e arcane e di gesti melodrammatici, decoravano le loro case come scene di d’Annunzio, e costringevano i loro uomini a fare altrettanto. I suoi vestiti facevano moda. I suoi motti trovavano immediatamente un coro pronto a riecheggiarli. Il Duca d’Aosta non riuscendo ad imitare altro di lui, ne imitava la calligrafia. Dopo la rappresentazione de “La nave”, il pubblico eccitato sciamò per le strade di Roma urlando come i protagonisti del dramma: “Arremba! Arremba!” e “Arma la prora e salpa verso il mondo”, con gran sconcerto della polizia che non sapeva di che sedizione si trattasse. Quello di d’Annunzio era molto più che un successo letterario. Come mai a nessun artista fino allora era riuscito, egli incideva non soltanto sul gusto della sua epoca, ma sul costume e sulla mentalità. Fu lui ad ubriacare gli italiani dando una specie di giustificazione storica e razziale alla pretesa di un primato politico, convertendoli al culto dell’eroismo e della violenza irrazionale, e così spianando la strada al demiurgo. Tutti i fermenti anarchici ed antisociali di cui l’Italia gorgogliava trovarono in lui il grande catalizzatore e ne ricevettero un’aulica consacrazione. Perfino la cronaca nera si vestì dei suoi panni. L’avventuriera russa Maria Tarnowska compì i suoi delitti in perfetto stile dannunziano i suoi patroni la difesero con argomentazioni dannunziane. La sua qualifica di superuomo era ormai così accreditata che l’indignazione fu grande quando si seppe che il Tribunale aveva ordinato il sequestro della Capponcina e la vendita di tutti i suoi mobili all’asta. La stampa e specialmente quella di parte nazionalista che ormai riconosceva in D’Annunzio il proprio araldo, insorse attaccando violentemente il governo che consentiva quel sacrilegio e ricordandogli che il Papa Paolo III, quando la polizia voleva arrestare Benvenuto Cellini per i suoi debiti, aveva risposto:
“Gli artisti come Cellini non sono tenuti al rispetto delle leggi, e tanto meno a quello dei conti.”
Ma il governo in quel momento era Giolitti che con Paolo III non aveva niente in comune. Ugo Ojetti, che assistette all’asta, ricevette l’impressione di trovarsi alla svendita del palazzo di un ricco prelato. Ogni poco il banditore annunziava: “Vergine seduta!... Vergine con il bambino!...S.Antonio fondo oro!...” D’Annunzio non era affatto religioso; ma era molto superstizioso. Si era riempito la casa di santi prchè li considerava portafortuna, e specialmente di Onofrio, molto popolare in Abruzzo ne aveva una dozzina. Il poeta parlò del “saccheggio”, come di una bassa vendetta dei mediocri contro il grande artista che aveva avuto il torto di fare della Bellezza la sua suprema regola di vita, ma non se ne mostrò molto turbato.
Andrea Balestri
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