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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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San Giuliano Terme, 30 giugno
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Marina di Vecchiano -giovedi 4 luglio
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Circolo ARCI Migliarino-6 luglio
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
D'ANNUNZIO
di Andrea Balestri
La biografia di d'Annunzio (part.5)

22/11/2010 - 11:29

ESILIO FRANCESE 1910-1915

 

A quei tempi per debiti si finiva in galera. Ma lui non correva questo rischio perché già da vari mesi era riparato in Francia. Aveva bisogno, scrisse:

 

“di aria e di spazio, di un paese nuovo e di nuove esperienze, anche se dolorose come l’esilio”

 

Ma era un esilio per modo di dire; in Francia egli era noto quasi quanto in Italia. E Parigi lo accolse spalancandogli tutte le porte, anche perché Barrère, da Roma, raccomandava al suo governo di usargli tutti i riguardi. Nessuna città poteva riuscirgli più congeniale. Parigi è sempre stata maestra nell’arte di valorizzare i personaggi che si prestano ad arricchire la sua galleria, incastonandoli, fornendogli un palcoscenico di risonanza internazionale e mettendo a loro disposizione tutti gli strumenti pubblicitari, dai più massicci ai più raffinati. D’Annunzio aveva tutti i numeri per approfittarne. Come già a Roma, egli non cercò di fare nido negli ambienti letterali, ma punto subito su quelli   mondani ricorrendo alle sole armi con cui si può conquistarli: lo snobbismo, le stravaganze e l’alcova. Per sottolineare la propria condizione di esule perseguitato, prese prima lo pseudonimo di Guy d’Ardres e poi quello di Gerard d’Agaune, che con il nome vero avevano le iniziali. Poi si scelse come amanti alcune fra le mattatrici più in vista di quel mondo cosmopolita da Isadora Duncan a Ida Rubinstein alla Principessa Natalie de Goloubeff, che non era Principessa, ma che lo diventò perché d’Annunzio la considerava tale. Che non gli avesse resistito la società romana, si può anche spiegarlo con il provincialismo. Ma il fatto che non gli resistette nemmeno Parigi dalla misura delle sue arti di seduttore. Anche qui tutte le donne che avvicinavano d’Annunzio diventavano dannunziane e collaboravano con entusiasmo al suo mito. Il debutto sulle scene parigine lo fece col “Martirio di San Sebastiano”, composto per la Rubinstein con la collaborazione musicale di Debussy, e fu uno dei grandi avvenimenti della stagione teatrale, reso ancora più clamoroso dalle vibrate proteste dell’Arcivescovo, offeso dalla trasposizione di un Santo nelle vesti di una ballerina ebrea. E d’Annunzio, che non si lasciava mai scappare un’occasione di scandalo, rispose che la signora Rubinstein era asessuale, anzi androgina con gran divertimento di tutta Parigi, meno l’interessata. Sulle ali di quel successo compose ancora “Le chevrefeuille”  e “La Pisanella, ou la mort parfumeè”. Ed ancora una volta si ripetè il fenomeno per cui il pubblico faceva ressa a teatro non per ascoltare un dramma, ma per ascoltare D’Annunzio: tanto che Fortuny lanciò l’idea d’inscenare all’aperto un grande spettacolo dannunziano in Campo di Marte o sulla Piazza degli Invalidi con 700 attori, 120 orchestrali e 5000 posti a sedere. Anche la Francia tradizionalista e conservatrice era ai piedi di D’Annunzio, in cui riconosceva il bardo del “Rinascimento latino”, Maurras scriveva di lui:

 

“Niente di buono è mai venuto al mondo che non rechi un segno di mano italiana”.

 

Naturalmente l’eco di questi trionfi rianimava in Italia il culto di d’Annunzio. Luigi Albertini, il prestigioso direttore del Corriere della Sera, stava sistemando i debiti del poeta ed aveva avanzato la proposta di offrirgli la cattedra universitaria di Bologna, che prima era stata di Carducci e poi di Pascoli (si ricordi che D’Annunzio non aveva alcuna Laurea). D’Annunzio rispose dantescamente:

 

“L’onore è grande, ma l’amore alla mia libertà è ancora più grande”

 

In realtà egli non aveva intenzione di lasciare Parigi proprio nel momento in cui mieteva i più grandi successi. Questo però non gli impediva di seguire, le cose italiane e di farvi pesare la sua presenza; era l’anno della spedizione di Tripoli. Egli ne trasse ispirazione per quelle “Canzoni delle gesta d’oltremare” che, pubblicate dal Corriere, suscitarono sfrenati entusiasmi, trasformando nella coscienza popolare quell’impresa giolittiana in un’impresa dannunziana. Il Conte Sforza racconta che, dopo la pubblicazione di quei versi, i rapporti e gli ordini del giorno dei generali impegnati nel deserto, di solito alquanto pedestri e talvolta anche sgrammaticati, s’infiorarono di voli lirici ed assunsero le solenni cadenze di proclami napoleonici. Imbaldanzito, il poeta non si contentò di esaltare i successi, in realtà assai modesti, delle nostre armi, ma si scagliò anche contro Giolitti accusandolo di fare dell’eroismo italiano un oggetto di bassi mercati con i suoi alleati di Vienna e di Berlino. Il giornale censurò i passaggi più scabrosi, ma la stampa francese le riprodusse con gran risalto. Quando l’editore Treves raccolse in volume le “Canzoni delle gesta d’oltremare”, d’Annunzio esigette che venissero riprodotto integralmente. L’idea che la censura “profani la poesia che io dedico alla mia Patria” lo rendeva esultante. Ma Treves, che esultava un po’ meno alla prospettiva di un sequestro, stampò solo pochissime copie per non rimetterci troppi quattrini. Le altre le mise in vendita solo dopo che la censura vi ebbe apportato i suoi tagli. Questi si ridussero in tutto a quattordici versi, che tuttavia bastarono a far di d’Annunzio una vittima e gli permisero di scrivere al loro posto le lapidarie parole:

 

“Questa canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca per ordine del Cavalier Giovanni Giolitti, capo del governo italiano”

 

La guerra fra i due era a questo punto dichiarata. Quando scoppiò quella europea, Barrère da Roma raccomandò al suo governo di guadagnare a tutti i costi D’Annunzio alla causa dell’intervento italiano. Qualcuno ha insinuato che i costi furono alti, ma si tratta di malignità: D’Annunzio lo si catturava meglio giocondo sulla sua cupidigia. Lo condussero in pompa magna a visitare il fronte, ed egli diede conto di questo “battesimo del fuoco”, con inni alla sorella latina ed al lavacro di sangue. Davanti alla cattedrale di Reims che bruciava sotto il bombardamento tedesco, andò in estasi e gridò al miracolo suscitando l’indignazione del Vescovo. D’Annunzio ribattè placido:

 

“ Vi assicuro che tra le fiamme la cattedrale raggiunge la sua perfezione”

 

Poi, nuovamente aggiunse in mezzo al generale sbigottimento:

 

“Esse la purgheranno degli orribili affreschi che decorano il suo interno”

 

Dopo l’ode in francese “Alla resurrezione latina”, che il giornale Le Figaro pubblicò a tutta pagina, egli inondò l’Italia di poetici appelli:

Alla Nazione, Ai cittadini, Ai combattenti, Al Re, che diventarono il vangelo della gioventù interventista. Da Milano lo invitarono a tornare per assistere alla “prima” della sua “Fedra”, che stava per essere rappresentata alla Scala. Rispose che preferiva, aspettare un’occasione più significativa, ed è probabile che ne avesse già studiato sul calendario la scadenza: il 5 Maggio sarebbe stato il cinquantacinquesimo anniversario della partenza dei Mille per Marsala. Quale migliore occasione per indire a Quarto un’oceanica adunata cui presentarsi come un redivivo Garibaldi?

 

 

RIENTRO IN ITALIA E L’ INTERVENTO 1915-1919

 

Mentre d’Annunzio a Parigi faceva la propria politica, il governo stentava a scegliere la sua. Nel dare al nostro Ambasciatore a Londra, Imperiali, l’ordine d’intavolare negoziati con i rappresentanti dell’Intesa, Salandra e Sonnino, non erano affatto decisi a concluderli. Volevano guadagnare tempo lasciando la porta aperta, o almeno socchiusa, ad un accordo con l’Austria.  Ed anche per questo avanzarono, in cambio dell’intervento, pretese piuttosto pesanti: il Trentino fino al Brennero, cioè con il Sud-Tirolo etnicamente tedesco; Trieste con le Alpi Giulie tutta l’Istria e quasi tutta la Dalmazia, il che voleva dire quasi un milione di slavi; Valona con il suo dell’entroterra Albanese; il Dodecaneso, che fin allora Francia e Inghilterra ci avevano contestato; ed un trattamento da grande potenza coloniale nel caso di successive spartizioni in Africa ed in Medio Oriente a spese della Germania. Ma quando Vienna si disse disposta a trattare la cessione del Trentino, Sonnino avanzò nuove pretese: Gorizia, l’autonomia di Trieste, alcune isole della Dalmazia e mano libera in Albania. Era un vero e proprio mercato, e Dio sa quanto sarebbe andato avanti, se da Londra non fosse giunta notizia che gli Alleati accettavano le nostre proposte. Il protocollo fu firmato il 26 Aprile 1915 pressappoco sulle basi proposte dall’Italia, che s’impegnava a dichiarare la guerra entro un mese, cioè alla fine di Maggio. Il paese era in preda alla suspense. Nessuno sapeva cosa stesse per accadere, ma tutti sentivano che qualcosa sarebbe accaduto, e la polemica divampava più violenta che mai sulla stampa e sulle piazze. Gli interventisti avevano guadagnato terreno, ma il neutralismo poteva contare su due blocchi abbastanza compatti. Uno era quello socialisti: specie fra i giovani, alcuni se n’erano staccati per seguire Mussolini e i Sindacalisti, o per far fronte comune con i radicali; fra questi, con il sindaco Caldara alla testa, tutta la Giunta Comunale di Milano, la città d’interventismo più fremeva. Ma la cosiddetta base era massicciamente all’unisono, con i dirigenti del partito, fedeli alla pregiudiziale pacifista. Più divisi erano i cattolici. L’elemento conservatore era per la pace prima di tutto perché vedeva nella cattolica Austria una garanzia di ordine, e poi perché prendeva il la dal Vaticano. Neutralista sia pure per tutt’altri motivi era anche l’altra estrema della falange cattolica: quella di sinistra capeggiata da Miglioli, l’organizzatore delle “Leghe Bianche”, che, in fatto di rivendicazioni e scioperi, facevano concorrenza a quelle rosse e tenevano in subbuglio le campagne. Ma il paese non si pronunciava perché la maggioranza era come al solito, silenziosa. Sostanzialmente neutralista, essa non aveva però il coraggio di opporsi agli interventisti che, sempre più baldanzosi e vociferasi, spadroneggiavano nelle piazze, godevano dell’appoggio dei giornali più potenti, facevano paura a tutti accusandoli di avere paura. Fu in questo ribollio di passioni che d’Annunzio ritornò in Italia per commemorare a Quarto la spedizione dei Mille (1860) Sembrava ch’egli avesse combinato il proprio rientro con l’aiuto di qualche veggente. Quando aveva ottenuto l’invito di tenere la sua orazione, egli non poteva certo sapere che proprio il giorno prima, il 4 Maggio, l’Italia si sarebbe ufficialmente ritirata dalla Triplice Alleanza (1882 Austria - Germania e Italia), passo decisivo verso l’intervento, dopo essere rimasta per 8 giorni, cioè dal 26 Aprile, quando aveva firmato il Patto di Londra, alleata contemporaneamente dei due blocchi in guerra. L’annuncio non era ancora stato dato, ma era nell’aria ed esaltava l’entusiasmo degl’interventisti, che ora correvano incontro al loro Vate per preparargli una “oceanica adunata”. Il Re e Salandra si erano impegnati ad intervenire alla cerimonia; ma quando ebbero visto il testo dell’orazione, preferirono restarsene a Roma scusandosene con motivi di servizio. E d’Annunzio vi fece una ironica allusione rivolgendosi:

 

“Al Re assente, ma presente”

 

Dopodiché, con voce lenta e gesti ispirati, cominciò a scandire il suo sonante appello all’enorme folla che si accalcava intorno al palco:

 

“Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, non a misura ma a prezzo di sangue e di gloria…O beati quelli che più danno perché più potranno dare, più potranno ardere…Beati i giovani affamati ed assetati di gloria, perché saranno saziati…”

 

Intanto Salandra rassegnava le dimissioni, la notizia non era ancora trapelata ed il Vate arringava la folla dell’Urbe:

 

“Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano, maneggiato da quel vecchio boia labbrone (Giolitti), le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino…Col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano, i manutengoli, i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe del’ex-cancelliere tedesco (Bulow). Codesto servitorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando, vorrei poter dire: saranno della città e della salute i benemerissimi.”

 

Era l’appello delle squadre, che infatti si formarono per prendere d’assalto l’abitazione di Giolitti. La polizia dovette circondarla di cavalli di fresia e disporvi dei picchetti armati per proteggere l’incolumità del vecchio statista. L’indomani 300 deputati vi si recarono per lasciarvi il loro biglietto da visita. Il gesto di solidarietà non andava tanto all’uomo, quanto all’istituzione che questi incarnava. La rivolta della piazza contro Giolitti, era in realtà una rivolta contro il Parlamento. Le dimissioni del governo avevano creato un pauroso vuoto di potere. Invano i Prefetti chiedevano istruzioni: Salandra non ne aveva lasciate. Il Paese era completamente al buio degli avvenimenti che incalzavano, e soltanto dal “Corriere della Sera”, apprese di non essere più alleato degli austro-tedeschi. Allora le squadre scesero per la strada e se ne impadronirono. Lo sciopero generale bandito dai socialisti riuscì solo a Torino, dove ci furono morti e feriti. Ma d’Annunzio a Roma, Mussolini e Corridoni a Milano avevano in pugno la città: “la maggioranza silenziosa gliel’aveva completamente abbandonata”. Il Parlamento non voleva l’intervento, anche perché ne sarebbe andato di mezzo il trono del Re, ma non riusciva ad esprimere un uomo disposto ad assumersi la responsabilità di rifiutarlo. Nei giorni seguenti, le consultazioni per un nuovo incarico governativo si erano susseguite, ma la febbre interventista era salita a quaranta, D’Annunzio gridava agli studenti:

 

“Appicciate il fuoco! Siate gli incendiari intrepidi della grande Patria!”

 

Col passare del tempo, i nazionalisti italiani si erano persuasi che gli obiettivi fissati dal Patto di Londra non bastavano a compensare i sacrifici  della guerra imposta. E nell’Aprile Fianchetti presentò a Sonnino, un promemoria sottoscritto da tremila firme dei più alti esponenti della politica e della cultura, che elencava “le rivendicazioni” italiane. Era un documento che dava piena ragione a Bismark, quando diceva che:

 

“gli italiani hanno pessimi denti, ma eccellente appetito”

 

Oltre agli acquisti già concordati con il Patto di Londra,

-          il Trentino fino al Brennero;

-          Trieste;

-          Tutta l’Istria;

-          Tutta la Dalmazia;

-          Il dominio esclusivo dell’Adriatico;

Gli italiani chiedevano mano libera

- sull’Etiopia,Gibuti, l’Oltregiuba, ed un cospicuo arrotondamento della Libia;

- tutta l’Asia Minore;

Fu per questo documento che il fronte interventista si ruppe. Esso era sempre stato un ibrido perché i nazionalisti alla Federzoni, e alla d’Annunzio vedevano e volevano, la guerra come la grande occasione che si offriva all’ Italia di assumere il rango di Grande Potenza europea e coloniale; mentre i democratici alla Bissolati, in piena coerenza con le idealità risorgimentali, la vedevano e volevano come lotta contro tutti gli imperialismi e moto di liberazione delle nazionalità oppresse dall’Austria. Mentre d’Annunzio parlava di “Vittoria mutilata”, Bissolati si dimetteva dopo un aspro scontro con Sonnino a proposito di Fiume. Per questa città, prevalentemente italiana, ma non contemplata nel Patto di Londra, Bissolati chiedeva che si rinunciasse alla Dalmazia slava, mentre per sonnino che lo considerava il suo capolavoro quel patto era intoccabile; pochi giorni dopo si dimise anche il Nitti.

                                                                                 Andrea Balestri

 

andreabalestri@interfree.it

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