Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Part. 6
QUESTIONE FIUMANA 1919-1920
D’Annunzio aveva fatto della guerra italiana una sua guerra privata, che aveva arricchito il suo petto di una interminabile fila di medaglie. Dapprincipio le autorità militari avevano respinto la sua domanda di arruolamento, adducendo a pretesto i limiti di età (aveva 52 anni), di fatto perché ne paventavano le iniziative. Ma alla fine, su preghiera di Salandra, Cadorna aveva dovuto arrendersi alle sue intimidatorie insistenze e gli aveva concesso uno status speciale che lo autorizzava a qualsiasi impresa di terra, di mare e di cielo. Forse sperava di utilizzarne solo le facoltà oratorie, mandandolo in tournè fra i reparti a rialzare il morale. Ma d’Annunzio voleva la guerra, e più ancora la gloria. Potendo scegliere fra le qualifiche che quella condizione di franco tiratore gli consentiva, adottò quella di Comandante e si stabilì in un piccolo e delizioso palazzo di Venezia, la “Casetta Rossa”, che fu il suo quartier generale e la sua garconiere. Naturalmente si scelse per amante la dama più in vista della città, la Contessa Morosini, nella cui alcova erano passati i personaggi più illustri, a cominciare dal Kaiser. Ma questo non gli impedì di compiere imprese azzardose e di sicuro effetto propagandistico. A bordo di un apparecchio contrassegnato dal motto “Interim leo rugit” volò su Trieste e su Pola che, per gli aeroplani di allora, non erano passeggiate. E fu in questa occasione che, insieme ai manifestini, egli ordinò ai piloti di lanciare un grido di sua invenzione: Eja, eja, alalà che naturalmente nessuno, da terra poteva sentire, ma che era destinato a rintronare per vent’anni gli orecchi degli italiani. Un'altra sua spettacolare gesta fu la “Beffa di Buccari”, un porto sulla costa dalmata dove egli penetrò alla testa di una flottiglia di Mas, silurandovi un mercantile e lasciandovi, dentro involucri di gomma, il testo di un suo sarcastico messaggio al governo austriaco. Al ritorno da queste imprese, egli ne dava regolarmente notizia alla sua amante in biglietti lapidari e conditi di frasi latine, che dovevano mettere in serio imbarazzo la destinataria, famosa non soltanto per la sua avvenenza, ma anche per la sua ignoranza. Col suo genio delle pubbliche relazioni, d’Annunzio sapeva fare in modo che le sue iniziative fossero subito sulla bocca di tutti e vi acquistassero un sapore di saga. Non era un profittatore della gloria. Se la conquistava al rischio della vita, perché coraggio ne aveva da vendere. Ma la voleva clamorosa e abbagliante per ricavarne il massimo profitto pubblicitario. Un giorno, in un atterraggio di fortuna, sbattè la testa contro l’impugnatura della mitragliatrice, e rimase cieco. Solo lunghi mesi di buio recuperò un occhio, e fu allora che scrisse il Notturno, unica opera in cui tentò di esplorare se stesso, ma senza riuscirci perché ancora una volta il personaggio, ebbe la meglio sull’uomo e lo soverchiò con le sue demiurghi pose. Fece tuttavia in tempo a coronare la sua carriera di guerriero con la più spettacolare delle sue imprese: “il volo su Vienna”, alla testa di una squadriglia di undici aeroplani, di cui uno solo non fece ritorno. Non gettò bombe, ma manifestini in cui invitava gli austriaci alla resa. Alla pace si rassegnò male, anche perché come scrittore e poeta sentiva di aver ormai dato tutto. Solo l’azione gli avrebbe consentito di restare un protagonista, e Fiume gliene forniva un valido pretesto. Egli ne assunse il patrocinio in una “Lettera ai Dalmati ”, e scorazzò l’Italia pronunciando in loro favore una serie di discorsi incendiari, pieni d’insulti contro il governo rinunciatario ed il presidente Nitti (soprannominato dal d’Annunzio Cagoia). In Settembre lo raggiunse a Venezia il maggiore Rejna, latore di un disperato appello: affidare Fiume ad un corpo di polizia interalleata sotto controllo inglese, come si era stabilito a Parigi, significava consegnarla agli Jugoslavi che già si preparavano al colpo di mano. La legione di Host-Venturi era già mobilitata, ed essa poteva contare sull’appoggio di parecchi giovani ufficiali dell’Esercito e sui loro reparti dislocati in zona di occupazione. D’Annunzio compose per “la Gazzetta del Popolo”, una specie di articolo proclama in cui spiegava in termini biblici ch’egli riprendeva le armi per amore di Cristo ed in nome dello spirito contro il Banco usuraio, ed annunciò la sua decisione in una lettera a Mussolini, ormai diventato con il suo “Popolo d’Italia”, il più ardente avvocato della causa irredentista:
“Caro Camerata, il dado è tratto: Domani mattina prenderò Fiume con le armi.”
L’indomani mattina era il 12 settembre 1919; partì all’alba con circa 300 uomini, diretto a Ronchi (dei Legionari) una cittadina a pochi chilometri da Trieste, che diede il nome a quella prima “Marcia”. A Ronchi trovò i granatieri di Rejna ed i legionari di Host-Venturi, sicchè il suo esercito salì a circa mille uomini, i soliti mille di tutte le imprese italiane; entrò in Fiume senza problemi di resistenza. D’Annunzio era padrone di Fiume e come tale agì da Capo di stato, e di uno Stato in guerra con tutti, anche con l’Italia. Formò un governo, organizzò un esercito di cui egli stesso dettò le uniformi. Il saluto con il braccio alzato, la cintura con il pugnale, il grido di Alalà, la camicia nera istoriata di teschi, insomma il funebre armamentario che in seguito doveva caratterizzare il fascismo, nacque allora a Fiume. E vi nacque anche, o meglio vi trovò il suo coronamento, la retorica degli immancabili destini, del mare nostrum, delle legioni romane, della patria imperiale, di cui il poeta condiva i suoi discorsi dal balcone. In pochi giorni i mille diventarono tre, poi cinque, poi ottomila grazie all’afflusso d’idealisti e di avventurieri non soltanto italiani. Il Ministro degli Esteri era un belga, Koschnitzy, e la diplomazia era stata affidata ad un giapponese napoletanizzato, Harukici Shimoi. A Fiume c’era di tutto di più; c’era Keller (detto asso di cuori) l’asso dell’aviazione che, dopo le bombe sulle linee austriache, aveva lanciato un vaso da notte sul tetto di Montecitorio; c’era un giovane scrittore non ancora consacrato alla gloria, Comisso; c’erano gentildonne e prostitute, non facilmente distinguibili le une dalle altre; c’erano attori e artisti in cerca di pubblicità. C’erano omosessuali e spacciatori di droga. E questa babele forniva a d’Annunzio il materiale umano più adatto a realizzare la sua Repubblica. Egli governava sulla pubblica piazza, interrogando la folla dal balcone; fu con questa procedura ch’egli elaborò e promulgò la famosa “Carta del Carnaro”,
(traduzione in termini statuari delle sue concezioni politiche e sociali).
Vi si legge:
1) che il potere doveva essere gestito dai “migliori”,
2) che la popolazione doveva essere divisa in 6 categorie di produttori come le Arti fiorentine,
3) che la vita è bella e degna di essere magnificamente e severamente vissuta,
4) che la religione nazionale di Fiume doveva essere la bellezza e l’armonia, per cui la ginnastica ed il canto rappresentavano doveri sociali,
5) che lo Stato doveva signorilmente provvedere ai vecchi ed ai disoccupati,
6) i sessi erano parificati, e al libero amore non era posto altro limite che quelli estetici.
A distanza di anni, ci sono degli storici che si domandano in tutta serietà a quali ideologie d’Annunzio si fosse ispirato nel redigere il documento e credono di scoprirvi il segno di un’audace concezione economica e sociale molto in anticipo sui tempi. In realtà si trattava di un miscuglio di Atene, Sparta e di Firenze, ma il poeta era convinto di avere dischiuso una nuova era all’umanità dettandole un modello di organizzazione sociale che prima all’Italia e poi tutto il resto del mondo avrebbe adottato. Fiume viveva in stato di perpetua eccitazione con comizi e adunate a getto continuo, e le strade gremite di gente vestita nelle più svariate e spettacolari fogge, come ad un ballo in costume. Alle camice nere dei legionari si mescolavano quelle rosse dei veterani garibaldini che avevano ormai passato l’ottantina. Il giorno trascorreva in rituali e le notte in feste. Purtroppo questa popolazione non poteva nutrirsi soltanto di Bellezza, di Musica e di Armonia; aveva bisogno anche di proteine, vitamine, calorie, insomma di riempirsi lo stomaco. E questo era un problema di più difficile soluzione. Nitti era stato preso completamente in contro piede dalla marcia su Ronchi. Quando gliene recarono la notizia, dapprima non volle crederci, poi la qualificò
“una scappata, degna della testa matta di d’Annunzio”
Quando gli dissero che per sottrarre Fiume a d’Annunzio non restava che annetterla, vi rifiutò dicendo:
“Siamo alla vigilia della fame: con questi atti si vuole affrettarla”
e manifestò il proposito di schiacciare la sedizione con la forza. Ma subito si rese conto che non era così semplice. Badoglio, che aveva il comando della zona, lo informò che in caso di attacco a Fiume non rispondeva della fedeltà della truppa, e le manifestazioni che si susseguivano dappertutto dimostravano che il Paese simpatizzava col golpe. Nitti penso che di questa agitazione fossero responsabili soltanto i nazionalisti, e si appellò alle masse. Ma con sua grande sorpresa scoprì che anche queste solidarizzavano con d’Annunzio, convinte che la sua sedizione fosse il “prodromo della rivoluzione proletaria”. Questa imprevista collusione fra nazionalisti e socialisti segnò una svolta destinata a pesare non soltanto sulla vicenda di Fiume, ma su tutto il corso della storia nazionale
MUSSOLINI E D’ANNUNZIO
Ad afferrarne l’importanza fu prima di ogni altro Mussolini che lanciò una sottoscrizione in favore di d’Annunzio e che in 4 giorni raccolse mezzo milione di lire. Sei mesi prima della marcia di Ronchi, e precisamente il 23 Marzo 1919, Mussolini aveva fondato a Milano i Fasci di Combattimento, che già nel nome portavano impressa la propria identità. Mussolini aveva cercato di raccogliere sotto la sua effige: nazionalisti del Maggio radioso e della Vittoria mutilata, rivoluzionari con il mito della violenza sorellina, conservatori con il mito dell’ordine e dell’autorità; insomma intorno a lui erano accorsi uomini della più disparata provenienza ideologica. Ma a contendergliene l’esclusiva c’era d’Annunzio, il cui nome in quel momento era molto più popolare e prestigioso del suo. Si ricordi che Mussolini era un politico e come da politico agiva, mentre d’Annunzio era un poeta, un ardimentoso. Ecco perché Mussolini accettava una posizione subalterna nei suoi confronti, e le diede plastico rilievo presentandosi a Fiume in aeroplano. Ufficialmente lo scopo della visita era di rendere omaggio al Poeta e prenderne gli ordini; ma l’obbiettivo vero era un altro. I legionari andavano dicendo che la marcia su Fiume non era stata che il prologo di quella su Roma. In pubblico i due uomini diedero l’impressione della più completa armonia, ma il colloquio a quattr’occhi ebbe toni aspri. D’Annunzio diede di opportunista e di codardo all’ospite Mussolini che, tornato a Milano, parlò di d’Annunzio come un pazzo pericoloso. Ma pur cominciando a prendere cautamente le distanze, Mussolini non potè dissolidarizzare dal Poeta, e ufficialmente seguitò ad agire come suo portavoce. Si è detto spesso che d'Annunzio fu l'ispiratore di Mussolini; è un giudizio grossolano, non fosse altro perché entrambi i personaggi non avevano una linea politica. Il Poeta perché non gli interessava, il Duce perché la sua politica fu sempre e solo quella brutale e realistica della conquista, prima, e della conservazione, poi, del potere. Mussolini era del tutto lontano dagli svolazzi dannunziani e, come vedevamo, seguì l'avventura fiumana solo per saggiarne la consistenza e valutarne l'eventuale utilità. Ma di sicuro d'Annunzio gettò un seme pericoloso con un metodo, che per lui fu patologico bisogno di platea, ma per altri fu uno strumento di potere. Ci riferiamo allo stile delle adunate oceaniche, della folla che si riconosce nel Capo, della fusione delle coscienze verso un fine ideale comune. E', a ben guardare, il massacro del contraddittorio, ossia di una delle garanzie fondamentali di libertà.
ALTRE PICCOLE IMPRESE DEL COMANDANTE
A Nitti non restava che confidare nel tempo. D’Annunzio non poteva rassegnarsi all’ordinaria amministrazione e per tener desti gli entusiasmi dei suoi e richiamare su di se l’attenzione del mondo, organizzò una marcia su Traù, ma l’avventura fu stroncata in 2 ore dall’ultimatum di una squadra americana che incrociava in quelle acque. Badoglio che manteneva con il Comandante rapporti amichevoli, lo richiamò alla moderazione esagerando la minaccia di una contro mossa jugoslava. Il Comandante d’Annunzio ne fu spaventato li per li, ma subito dopo organizzò una spedizione marittima su Zara, dove fu ricevuto con grandi onori da Millo. Nitti, furente, definì ignobile il gesto dell’Ammiraglio e ne dispose il richiamo, ma la Marina si oppose, la pubblica opinione la sostenne, Millo rimase al suo posto e d’Annunzio seguitò nei suoi colpi di testa con la certezza della propria impunità. Per rimpopolare l’esauste finanze del suo piccolo Stato, egli introdusse il divorzio che fece di Fiume la Mecca delle coppie in dissesto. E per assicurargli i rifornimenti, non esitò ad organizzare, con l’aiuto del Capitano Giulietti (che dirigeva la Federazione dei Marittimi) una flottiglia di pirati come quelli dell’antica Dalmazia, si chiamarono Uscocchi. In realtà di rifornimenti Fiume non aveva molto bisogno perché il blocco che avrebbe dovuto e potuto facilmente ridurla alla capitolazione per fame non aveva mai funzionato. Badoglio, cui spettava il compito di applicarlo, definiva la Marcia di Ronchi la più bella impresa dopo quelle di Garibaldi. E lo stesso Nitti ammise più tardi di non aver fatto nulla per impedire l’afflusso di merci. In compenso con le loro spericolate imprese , gli Uscocchi davano a Fiume un alone salariano di “nido della filibusta”, oltremodo redditizio sul piano pubblicitario. Uno degli obbiettivi che si era proposto d’Annunzio marciando su Fiume era quello di mettere in crisi il governo “rinunciatario” di Nitti. Il colpo non riuscì perché dopo un tempestoso dibattito alla Camera Nitti ne ottenne ancora la fiducia con un margine di 65 voti. Ma l’indomani la sciolse, indicendo per Novembre le elezioni. Il successore c’era già, ed il suo nome correva sulla bocca di tutti : Giolitti (il bolscevico dell’Annunziata). In seguito alla sua politica molte cose si placarono e convinto che l’ondata estremista fosse ormai in reflusso e che quindi il Paese si stesse avviando alla normalità, Giolitti decise di liquidare l’ultima pendenza lasciata dalla guerra: la questione di Fiume, da cui dipendeva il definitivo regolamento dei conti con la Jugoslavia. Appunto per questo egli aveva affidato gli Esteri a Sforza , risoluto partigiano di un accordo con Belgrado. La trattativa diretta si svolse a Rapallo in Novembre. La condusse Sforza con molta abilità, Giolitti v’intervenne solo oramai quando l’accordo era raggiunto. Firmato il Trattato , restava da persuadere D’Annunzio ad abbandonare la città. E nel caso che avesse opposto resistenza, bisognava fare in modo che questa non sollevasse nel Paese un’altra ondata d’isteria nazionalista. D’Annunzio era in crisi. Già al tempo del governo Nitti, egli aveva accettato una proposta di Badoglio secondo cui il governo di Roma avrebbe proclamato il diritto di Fiume all’autodecisione, e d'Annunzio l’avrebbe consegnata ai reparti regolari in attesa della definitiva sistemazione alla Conferenza di pace. Questo accordo era stato approvato dal Consiglio Nazionale, che fungeva da Parlamento di Fiume, e poi consacrato da un plebiscito. Il fatto è che la città era stanca del clima sagraiolo in cui d’Annunzio la teneva immersa riducendola ad una specie di Circo Barnum. Ma il Comandante, subito dopo aver dato la parola a Badoglio, se la rimangiò, mettendo in crisi gli elementi nazionalisti e militari che erano accorsi sotto la sua bandiera per spirito patriottico. Rejna lo abbandonò; lo abbandonò Millo ed anche il suo Capo di Gabinetto Giurati, l’uomo più serio di tutta la banda, che venne sostituito dal sindacalista De Ambris. Con lui prese piede l’elemento estremista che mirava a fare di Fiume la rampa di lancio di un movimento rivoluzionario nazionale, cui aderì perfino l’anarchico Malatesta.
ANDREA BALESTRI
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