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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a spaziodonnarubr@gmail.com
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Mauro Pallini-Scuola Etica Leonardo: la cultura della sostenibilità
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Incontrati per caso
di Valdo Mori
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APOCALISSE NOKIA di Antonio Campo
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A cura di Erminio Fonzo
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Domenica 7 Luglio mercatino di Antiqua a San Giuliano T
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Ripafratta, 12 luglio
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Bagno degli Americani di Tirrenia
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
IL PROVERBIO
Non metter bocca...

9/2/2011 - 18:57


Il proverbio di oggi:

Non metter bocca
dove non si tocca!
 
 
Il modo di dire:
Fare le seghe ai morti.
Macabra versione toscana del più noto “fare i buchi nell’acqua”, per indicare un atto inutile, vano, con nessuna possibilità di riuscita come lo stimolo sessuale in un cadavere.
 
 
Dal libro “Le parole di ieri” di G.Pardini
 
 
VECCHINA (LA)
La Vecchina era la marca di un surrogato del caffè che si usava quando il caffè non si trovava, o costava molto ed i soldi erano pochi.
Si rimediava allora usando un surrogato e producendo una bevanda scura somigliante molto al caffè, più come aspetto che come sapore. Si poteva mescolare con un po’ di caffè, se c’era, oppure usare anche da sola o mescolata al Frank, un altro surrogato molto utilizzato.
Si chiamava Vecchina perché sulla scatola c’era la silouette di una vecchierella, curva, con lunghe vesti. Il caffè si acquistava in grani e poi si riduceva in polvere per mezzo del macinino, un attrezzo con una piccolo manico alla sommità che faceva muovere due ruote dentate che si incrociavano triturando i neri chicchi tostati.
La produzione della bevanda avveniva con il bricco, un recipiente, di solito smaltato, dove veniva messa la polvere e l’acqua. Si faceva bollire e poi si aspettava che la polvere in sospensione si raccogliesse sul fondo. Esistevano anche vere macchine da caffè in cui l’acqua veniva fatta bollire con un piccolo fornello “a spirito” e l’acqua in ebollizione passava attraverso la polvere, come accade nelle macchinette moderne.
Un altro sistema di produzione era con la famosa “napoletana”, ancora in uso al giorno d’oggi, in cui il caffè viene posto in mezzo a due recipienti di identica capacità.
In quello inferiore si mette l’acqua, si pone sul fuoco e quando questa bolle si capovolge il tutto: l’acqua bollente per gravità filtra attraverso la polvere e si raccoglie nel recipiente sottostante.
La fabbrica della Vecchina era a Pontedera, ed era stata fondata da Luzio Crastan, un intraprendente imprenditore venuto dalla povera valle svizzera della Engadina.
Giunto in Italia presso connazionali in cerca di un lavoro, Luzio dimostra subito un notevole spirito imprenditoriale divenendo ben presto un facoltoso commerciante, proprietario di una catena di negozi. I suoi commerci lo conducono più tardi anche a Livorno, dove intraprende l’attività di armatore. Dopo un periodo iniziale di grande espansione l’affondamento di un veliero non assicurato ed alcune scelte probabilmente non felici comportano per l’imprenditore un periodo critico.
E’ in questo periodo che Luzio Crastan si trasferisce a Pontedera e fonda la fabbrica a cui mette il nome di “Figli di Luzio Crastan”, oggi “Crastan s.p.a.”
Alla sua morte i figli incrementano l’attività paterna creando anche una piccola succursale a Bientina dove il terreno sembra adatto alla coltivazione intensiva della cicoria.
Questa infatti è il prodotto base per la produzione dei surrogati e la sua coltivazione si rende necessaria per non dover dipendere totalmente dalla sua importazione dai mercati del Nord Europa.
Il prodotto è infatti una miscela di diverse piante, tra cui cui il malto e l’orzo, ma la base è la pianta della cicoria..
In quegli anni il caffè è ancora considerato un bene di lusso.
La sua comparsa in Italia è avvenuta per caso verso il 1600 nella città di Venezia, dove un medico padovano ne portò alcuni sacchi dimenticati dai turchi in ritirata da Vienna.
Il primato della nascita del caffè in Italia è comunque controverso ed anche Livorno ne vanta la primogenitura. La sua diffusione fu molto rapida anche se la Chiesa, per l’azione stimolante ed eccitante della bevanda, cercò di frenarne l’uso definendolo “bevanda del diavolo”.
Nel ‘700 il re Gustavo di Svezia contribuì involontariamente a provare la sua innocuità (di cui la medicina ufficiale non era certa, anzi alcuni dicevano fosse nocivo), condannando a morte due  fratelli mediante somministrazione giornaliera della bevanda, morte che non sopraggiunse mai con grande soddisfazione dei due condannati.
 Nel 1935, quando la Società delle Nazioni impose sanzioni economiche all’Italia il caffè entrò a far parte dei prodotti sostituiti o addirittura proibiti. Il regime proibì l’albero di Natale perché “usanza esotica”; le donne, a cominciare dalla regina, furono invitate a donare alla patria l’anello nuziale (molte di queste fedi si troveranno nei bagagli dei gerarchi in fuga); il tè venne sostituito dal carcadè “prodotto dalla Somalia”, ed il caffè proibito perché “faceva male”:
se vuoi vivere quanto Noè
 bevi Vecchina e non caffè”.
 
VERCHIONE
Lett: nc.
Il verchione era la spranga della porta, non un piccolo chiavistello bensì una grossa e solida sbarra di ferro. Il termine accrescitivo garantiva la solidità della chiusura, la tenuta della serratura formata da un paletto di grosso calibro, tanto da utilizzarne il nome anche per l’organo genitale del somaro.
L’ho chiuso col verchione” indicava l’assoluta sicurezza e inviolabilità della chiusura.
 
VERGATO
Lett: VERGATO. [Rigato. Scritto. Composto].
In dialetto derivava invece da verga (ramoscello) e indicava una consistente punizione corporale al pari di battuto, passamano, cardato (vedi).
Bisogna nuovamente sottolineare la mancanza di odio e cattiveria contenuta in questa parola.
Il vergato era una cosa santa, un modo, anche se un po’ spiccio talvolta, di ricordare a qualcuno di come ci si deve comportare fra gentiluomini.
Una maniera, spesso non proprio gentile, per rimettere una persona sulla retta via.
Ni ci vorrebbe un ber vergato!” indicava non la volontà di fare del male per il gusto di farlo, ma solo per rendere la persona consapevole dei propri errori.
 

NB: La foto in Bocca è datata 4 agosto 1946 

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12/2/2011 - 9:14

AUTORE:
Bocchista

La foto è del 4 agosto del 1946 e il luogo è senza dubbio Bocca di Serchio, lo si vede dalle baracche che in quegli anni si facevano ancora con la cannella tagliata sulle ripe.
I bagnanti sono sicuramnete del luogo. Sarebbe interessante sapere chi sono quelle bambine che ora magari sono nonne e portano loro i nipoti al mare.